giovedì 27 dicembre 2012

Galle Fort

E' la sera del 29 gennaio del 2012.
Di fronte a me, oltre il vasto prato dove i bambini si rincorrono e alcuni ragazzi improvvisano una partita a cricket, oltre la stradina bianca in riva al bastione dove le coppie passeggiano e nugoli di militari corrono, ancora più oltre,  passate le imponenti mura del bastione, mi cattura l'Oceano a perdita di sguardo.
Il sole sta per sparire, pochi secondi e tutte queste persone perderanno i loro tratti per diventare ombre in movimento.
Galle è una città a Sud Ovest dello Sri Lanka ben fornita e molto commerciale ma soprattutto Galle è Galle Fort, la città vecchia, un bizzarro esagono fortificato circondato sui cinque lati dal mare e separato dalla moderna Galle da un importante stadio di cricket e dalla stazione di autobus più affollata che abbiamo mai visto.
Noi alloggiamo all'interno di queste mura storiche, assorbendone il fascino e godendo la tranquillità che preservano nonostante il consistente flusso turistico.
Costruita e fortificata dai portoghesi divenne il principale porto dello Sri Lanka fino a che gli inglesi non presero il sopravvento spostando tutto il traffico su Colombo, ma nulla ha a che vedere con l'attuale capitale nè in termini di bellezza nè in termini di fascino.
Furono proprio le fortificazioni portoghesi a salvare molte vite dallo tsunami del 2004.
Tralasciando la parte moderna che risulta utilissima in caso di rifornimenti vari (dalle pile ai medicinali) ma che non presenta nulla di speciale, Galle Fort è un piccolo gioiello con una magia e una storia particolari che si respirano in ogni angolo.
Accanto a palazzotti del 1800 sorgono chiese del 1600, templi moderni e perfino una moschea.
Senza alcuna prenotazione, abbiamo fermato il tuk tuk davanti ad un bed and breakfast che ci attirava per la posizione tranquilla e come sempre il nostro istinto non ci ha tradito.
Il Sea Green è sviluppato su tre piani di cui l'ultimo direttamente su un terrazzo stretto e lungo dal quale io mi faccio catturare ogni sera dall'Oceano di fronte.
La nostra stanza è proprio sul roof quindi ci è sufficiente aprire la porta e trovarsi padroni del panorama.
Alla nostra destra, direttamente sui bastioni, c'è la caserma militare così che ogni giorno possiamo assistere al presentat arm e a estenuanti marce sotto al sole; alla nostra sinistra c'è la scuola, un alveare di piccole api con le trecce o il berrettino che cantano appena arrivate in classe, pregano e poi fanno ginnastica nello spiazzo enorme di fronte.
Appena sotto alla caserma, al di fuori della cinta muraria, direttamente sul mare, c'è la tomba di un santo musulmano la cui storia rimarrà un mistero.
Dalla strada circolare che corre adiacente alle mura si diramano piccole strade dove sorgono bed and breakfast, ristorantini, bettole, sale da tea, abitazioni per lo più di stranieri, scuole e due università.
Ce n'è veramente per tutti i gusti e per tutte le tasche e si può passare dal lusso sfrenato del Galle Fort Hotel con i suoi camerieri in livrea bianca molto english alla guest house con poche stanze spartane e bagni in comune.
Non in tutti i locali è possibile trovare alcolici, in realtà si contano sulle dita di una mano ma la gente del posto vi indicherà senza problemi dove trovare quello che state cercando.
Abbiamo cenato nella mecca del curry, un posto rinomato per l'abbondanza dei suoi piatti uniti ad una eccellente qualità e a prezzi veramente ridicoli.
Il Mama's Galle Fort è ubicato su una deliziosa terrazza dove mangiare sotto ad un cielo stellato in compagnia di qualche geco curioso e all'intermittenza romantica del faro a poca distanza.
Il ristorantino accanto al nostro bed and breakfast non è stato da meno. Si mangia in terrazza di fronte ai bastioni e la birra viene servita dentro alle tazze in ceramica con coperchio in ferro sbalzato.
I corvi qui sono più numerosi degli abitanti e sull'albero di fronte alla nostra terrazza li osservo, rannicchiati , dormire fino alle prime luci dell'alba, fino a quando con un balzo si stirano e si tuffano all'indietro nel vuoto per poi aprire le enormi ali e volare sui cornicioni delle torri.
Un pomeriggio una scimmia ha fatto la sua apparizione dal tetto della casa di fianco.
Ci ha osservati curiosa aspettando forse del cibo per poi scappare con lunghi e agili balzi infastidendo una coppia di scoiattoli.
Durante una delle nostre assolate passeggiate del mezzogiorno incontriamo colui che diventerà un appuntamento fisso: l' incantatore di serpenti con la sua minuscola scimmia.
Completamente privo di denti ci sorride scoperchiando uno dei due cestini davanti a lui e un enorme cobra dagli occhiali gonfia il cappuccio minaccioso.
Rispetto a tutti i serpenti che ho avuto modo di vedere in India e a Marrakesh, questo è veramente ben tenuto, senza residui di muta a penzolare dal corpo denutrito e con l'energia degna di un cobra.
L'incantatore suona il piffero e con l'altra mano sventola il coperchio del cesto per far ciondolare il cappuccio.
Facciamo foto e video e siamo gli unici avventori che gli chiedono, quasi pregandolo in verità, di poterlo toccare.
E a lui non pare vero! Scoperchia con soddisfazione l'altro cesto e appaiono dei babies ancora più energici.
La scimmietta nel frattempo, approfittando del momento di distrazione del suo padrone, sottrae dalla bisaccia un pacchetto di betel e se lo mette in bocca furtivamente.
Mi sale in braccio ed è irresistibile, quindi nonostante la mia diffidenza verso il genere, lascio che mi abbracci e giochi con le piccole dita con i miei impianti sottopelle che gli devono sembrare una cosa assai strana.
Insomma, è un po' come se ci scambiassimo un'esperienza: io ti tengo in braccio (cosa che non ho mai fatto) e tu tocchi le mie palline di teflon (cosa che sicuramente non avrai mai fatto).
Mi fissa con sguardo interrogativo e mi viene naturale parlarle. 
Acciambellato e totalmente innocuo accanto a noi un grosso pitone si gode il caldo della pietra.
Ma lo spettacolo sono loro, gli indemoniati.
L'incantatore ci racconta in un misto di inglese e singalese che provengono dall'India e che lui li accudisce amorevolmente per tenerli in salute. E ci crediamo, visti i risultati.
Tu sembri un bambino, ti avvicini sempre di più, agiti di fronte a loro il sacchetto con le bibite per vedere la reazione poi glielo richiedi un'ultima volta e lui ti fa cenno di accomodarti.
Non so più chi è l'incantatore, tu o lui.
Appoggi la mano sulla testa del più grande, con calma e freddezza, abbassandogliela piano.
Poi mi guardi felice: vuoi toccarlo?
Sì, cioè no, cioè sì. Con la mia mano nella tua mano insieme appoggiamo le dita su questa testa dura, sorretta da muscoli forti e in tensione ed io avverto una scarica di sorpresa, paura, gioia e sento tutta questa forza animale che mi attraversa senza nuocermi.
L'incantatore scatta una foto che coglie in pieno il mio sguardo stupito e insieme grato.
Grato a te, che mi hai fatto provare anche questo, in sicurezza, e mi ha fatto tornare una bambina curiosa e pronta a stupirsi ancora delle cose.
Gli lasciamo una lauta mancia e torneremo a salutarlo di nuovo nei giorni a venire.
Passeggiando sui bastioni a strapiombo sul mare notiamo una scala nella pietra che porta ad una piccola insenatura. Scendiamo cauti, gli scalini sono consumati dal tempo e dalla salsedine.
L'acqua è cristallina e dei piccoli di murena ci scivolano veloci tra le caviglie.
Serpenti marini! - ti urlo in preda all'entusiasmo. 
Alcuni ragazzi singalesi arrivano ridendo e parlando forte, si spogliano e si tuffano in acqua.
Dopo qualche istante ci chiamano divertiti e ci invitano a fare il bagno con loro nella caletta dopo, dove da una roccia isolata ci si può tuffare.
I turisti dall'alto ci invidiano e si fermano a guardarci mentre sguazziamo nell'acqua cercando di non scivolare sui sassi ricoperti di alghe.
Durante la giornata troviamo sempre il tempo di fare un salto a Galle città, è giusto un quarto d'ora di camminata. Le nostre mete preferite sono il supermercato Cargillis dove fare rifornimento di succhi e acqua, sapone e biscotti. 
Non troverò più i miei biscotti preferiti, una specie di fetta biscottata tonda e spessa, poco dolce e quasi rafferma, ma rimedio con prodotti del forno locale.
Poi c'è la cartoleria dove vendono le buste marroni che ricordo forse di aver visto per l'ultima volta negli anni 70 e che hanno un fascino assolutamente retrò.
Nel negozio di elettronica troviamo le pile per le torce e per la nostra attrezzatura fotografica a un terzo del prezzo europeo.
Torniamo e entrando dal voltone in pietra di Galle Fort incontriamo un signore che ci avvicina chiedendoci se siamo italiani.
Pensiamo subito al solito approccio per rifilarci qualcosa, dopotutto siamo in città e la città riserva spesso incontri di questo tipo.
Ma lui è diverso, si sforza di esprimersi un poco in italiano e ci dice che anche lui è in vacanza, dalla famiglia, perchè lavora ad Aosta in un albergo e orgoglioso ci mostra la carta di identità italiana.
Scambiamo ancora qualche chiacchiera, lui ama la sua terra ma è grato all'Italia dove lavorando può contribuire a mantenere tutta la sua famiglia che una volta all'anno per 15 giorni riesce a riabbracciare.
Si congeda da solo, dopo poco, scusandosi dell'intromissione e ringraziandoci per aver parlato con lui in italiano. Ci ha augurato buona permanenza e lo ha fatto con sincerità.
Il sole sta piano piano scendendo e i corvi si avvicinano alle case per individuare la sistemazione per la notte.
I soldati stanno rientrando di corsa dopo i quotidiani esercizi sui bastioni.
Alcuni signori anziani si attardano sulle panchine osservando le bizzarrie di noi turisti e ridono di tanto in tanto per i buffi cappelli dei giapponesi e i sandali con le calze dei tedeschi.
Non dicono nulla per i nostri tatuaggi ma muoiono dalla voglia di vederli da vicino.
Dopo tre notti al Sea Green dove avremmo voluto rimanere se ci fosse stata una stanza libera, ci spostiamo al Fort Dew Guesthouse, qualche metro più in là.
Un poco più affollato e caldo, si rivela comunque una sistemazione buona.
La camera è angusta direttamente sulla balconata che da sulla strada, Rampart Street, ma il bagno è grande e luminoso. Si mangia e si fa colazione sul terrazzo, ben attrezzato e ventilato.
Ed è su quel terrazzo che una sera il tempo si è fermato per un attimo regalandomi una autentica visione.
Ero indecisa se raccontarla oppure no, spesso le visioni sono come le bolle di sapone, basta soffiare troppo forte e invece di perdersi nel cielo integre, esplodono davanti agli occhi con somma delusione.
L'occhio di chi narra ha visto la magia ma la voce di chi ha visto può non essere in grado di trasmetterla nella sua bellezza.
Cedo alla tentazione ma solo per egoismo perchè quando rileggerò queste pagine accarezzerò di nuovo quell'immagine.
Dopo una certa ora, la sera, quando tutti sono usciti dai ristoranti, hanno terminato le passeggiate e si ritirano nei rispettivi alloggi, cala un silenzio quasi innaturale.
I corvi dormono appollaiati sui rami confondendosi tra le foglie, le cicale riposano nella brezza che arriva decisa dall'Oceano e i cani sono sagome tonde nella polvere dei prati.
Le luci dei lampioni piano piano si rincorrono spegnendosi e nella caserma si accende una curiosa luce rossa cupa che si fonde con l'oscurità. 
Noi rimaniamo in silenzio sulla terrazza, alla luce di una candela che va esaurendosi.
La musica è stata abbassata e anche dalla cucina le stoviglie tacciono.
In questo silenzio e in questa oscurità arrivano in lontananza un cigolio e un tintinnio cadenzati ma ovattati che nell'avvicinarsi aumentano lievemente di intensità.
Per un attimo mi vengono in mente i monatti nei Promessi Sposi che con il loro carretto si trascinano per le strade alla ricerca di morti appestati da portare via.
Rimaniamo in silenzio, quasi senza respirare e aspettiamo immobili; un brivido mi attraversa la schiena.
Dopo qualche istante appare sulla strada una luce gialla che barcolla e si avvicina insieme al tintinnio.
E' come se avanzasse danzando, sospesa nel buio, una sorta di  fuoco fatuo.
Finalmente è sotto alla terrazza e giù, nella strada, emerso dall'oscurità, finalmente lo vedo.
E' difficile dargli un'età, potrebbe averne 40 ma dimostrarne 60.
Cammina lentamente e spinge un carretto di legno dalle grandi ruote arrugginite che sorreggono un ripiano quadrato a sua volta sormontato da una tettoia aperta sui lati.
Sul ripiano è appoggiata una grande ciotola brunita ormai vuota e alla tettoia penzola, barcollando, una lanterna a olio con una fiamma gialla e calda che la brezza marina ogni tanto smorza senza mai spegnerla.
Cammina da solo, nel buio, senza parlare o cantare, cigolando ad ogni giro completo di ruota e facendosi varco in quell'oscurità con una fiammella.
Arriva una zaffata di spezie che si allontana con lui.
Dopo pochi passi il buio l'ha di nuovo inghiottito, mangiandosi lui, poi la fiammella che ha continuato da sola a danzare e per ultimo il cigolio.
Lo abbiamo visto veramente, così come abbiamo visto la capra aspettare l'autobus, Zio Tobia tornare dall'inferno e palletta gialla salutarci alla nostra partenza.
Abbiamo visto le lacrime di Sunetra, il sorriso sincero di Mr Luxman il burbero, il guardiano del giardino con il machete, il pavone sulla spiaggia e l'anima in fondo ai nostri occhi.
Perchè forse è solo qui che si vede per davvero.








mercoledì 26 dicembre 2012

Risalire è un po' come morire

Non ce lo diciamo mai direttamente ma prendiamo decisioni che ci stanno riportando lentamente verso Colombo, facendo finta di nulla, per non incontrarci con lo sguardo smarrito di chi non ha alcuna intenzione di tornare.
Come in ogni finale di viaggio, ho la sensazione di avvertire l'autunno che arriva e non importa se ci sono 35 gradi, il caldo a volte è insopportabile e le cicale friniscono ininterrottamente.
E' una fine, un passaggio, stiamo per prepararci al rientro con il freno a mano tirato al massimo, rallentiamo i passi, rallentiamo i gesti, dilatiamo il tempo, o almeno così speriamo.
Ci fermiamo di nuovo all'Ocean Dream ad Anghama, non tanto per desiderio quanto per comodità di collegamento. E trovarsi da dove siamo partiti fa un certo effetto.
Rimaniamo tre giorni, riempiendo le giornate con scatti al tramonto ai pescatori mentre attendono l'alta marea per affrontare il mare, scatti alla spiaggia dei nostri amici prima che il sogno sia realizzato, nuotate in piscina perchè qui il mare è impetuoso, passeggiate lungo la strada perdendoci in strade laterali poco battute, pensieri chiacchiere e riflessioni.
I pescatori seguono un rituale ogni sera, probabilmente tramandato da chissà quanto tempo.
Quando il sole è ancora sopra la linea dell'orizzonte, cominciano ad arrivare nella piccola insenatura adiacente alla strada principale.
Uno sgangherato capanno in legno tra gli alberi nasconde la strada stretta e ripida che porta alla baia.
Ogni piccolo equipaggio è costituito da 3, massimo 4 persone. E almeno una di queste è un anziano.
Lavano il motore, controllano le reti e l'attrezzatura, scambiano due parole, mangiano frutta che ci offrono mentre spiamo discreti le loro manovre. Non ci parliamo che con lo sguardo e i sorrisi.
Lavorano alacremente ma in tranquillità, gesti decisi ma naturali che potrebbero svolgere a occhi chiusi.
Hanno le mani  belle segnate dal mare e i volti che paiono cartine geografiche con rughe profonde.
Scatta l'ora x, il sole si è abbassato e il mare cambia, diventa più blu, quasi nero ma meno violento.
Le barche partono una alla volta, devono essere guidate da un marinaio in acqua che pericolosamente guida la chiglia oltre le onde, la posiziona nel corridoio perfetto per prendere il largo.
Richiede fatica e coraggio, basta un'indecisione e si può venire colpiti da un'onda e sbattere violentemente contro la barca.
Ma questi uomini sanno il fatto loro, una dopo l'altra le barche lasciano la riva e spariscono all'orizzonte, verso il sole che si abbassa sempre più velocemente e noi rimaniamo soli a disturbare il riposo di colonie di perioftalmi e granchi che si trastullano sugli scogli.
E' un'immagine che dona pace nonostante il mio pensiero vada a quegli uomini che rischiano ogni volta la vita per sopravvivere.
Rientreranno all'alba, con le barche stanche come le loro braccia, quando noi riposiamo nel nostro letto.
Immagino una piccola lanterna a illuminare la via e nella luce che piano arriva li vedo, intenti a sistemare i pesci nelle casse, pronti per essere portati al mercato ed essere venduti.
Sistemeranno le barche a riva, accucciati attorno al fuoco berranno un caffè caldo e spariranno fino al tardo pomeriggio, per ricominciare tutto di nuovo.
Il profumo dell'autunno si fa più intenso ed è in quella sua particolare malinconia che amo perdermi, lasciando ogni volta un pezzo di cuore in immagini che cerco di fermare dentro di me per ritrovarle quando saremo così lontani da questa pace.


lunedì 17 dicembre 2012

Ritorno a Marakollya Beach

Il tuk tuk procede sobbalzando sulla strada sterrata, un varano ci attraversa lesto il cammino e tra i rami i cinguettii striduli ci danno il bentornato.
Superiamo la distesa paludosa dove i cormorani stanno appollaiati su rami secchi e contorti e subito dopo la curva incontriamo Mr Laxsman. Il tuk tuk rallenta e lui ci riconosce subito, sorridendo ci stringe le mani "my friends, how are you" e la maschera rigorosa e altezzosa cade lasciando trasparire una sorpresa sincera nel rivederci.
Gli chiediamo se ha una cabana disponibile per qualche notte e lui ci fa cenno di precederlo.
Mentre ci allontaniamo mi volto per osservare il suo passo lento e pacato, lo sguardo che si perde tra i rami e la strada, penso che si sta recando al lavoro e vuole godersi ancora qualche attimo di libertà nel silenzio della natura.
Congediamo il nostro autista e appoggiamo gli zaini sotto alla grande tettoia di legno riassaporando ancora una volta ma come se fosse sempre la prima, il bagliore abbacinante della luce riflessa sulla spiaggia e il blu del mare. Ci sentiamo a casa, ci sentiamo un po' proprietari di questo angolo di paradiso e attendiamo con ansia Mr Laxsman.
C'è una cabana libera per tre notti e la prendiamo al volo. Felici.
Nulla se non questo posto mi ha dato il senso di vertigine delle incredibili distanze e il piacevole senso di isolamento che ne consegue.
Rumesh è un giovane singalese spigliato e entusiasta della vita.
Lavora tutto il giorno, alla mattina riassetta la spiaggia, aiuta in cucina e si presta in piccole commissioni.
Alla sera accende le torce, brucia gli incensi votivi, gioca con i bambini di una coppia tedesca e quando Mr Laxsman si ritira arriva sorridente con gli occhi di brace con un bicchiere colmo di Arrack, il rum dello Sri Lanka, che ci porge senza volere in cambio nulla, se non due chiacchiere con noi.
Ci racconta che ha fratelli e cugini che vivono a Milano dove lavorano in rosticcerie e ristoranti ma che lui desidera rimanere qui, nella sua terra. Abita poco distante, verso l'interno, e torna a casa una volta al mese quando ha il riposo dal Mangrove.
Ci rivela che Mr Laxsman è un capo rigido e diligente ma comunque un buon capo, lo prende un po' in giro per la sua ossessione alla precisione negli orari e nella sistemazione delle cose.
La sua presenza è gioiosa e discreta, basta fargli un cenno che si precipita volando sulla sabbia ma sa capire quando desideriamo privacy e solitudine.
Una sera, finita la cena, sentiamo un cane guaire e il suo guaito insistente si trasforma in un attimo in un pianto disperato. Due aiutanti di Mr Laxsman corrono verso l'ingresso del Mangrove agitando le mani e urlando, nel buio riesco solo a vedere una palletta gialla correre forte verso la foresta.
Seduti sotto al nostro porticato riattacca il guaito e subito dopo il pianto. Tu mi guardi, io aspetto solo un tuo sguardo, che arriva. Mi alzo di corsa con la torcia in mano e mi precipito verso il buio cercando non so bene cosa, comunque una palletta gialla. Ed eccola lì, sotto ad un motorino, mimetizzata nella sabbia.
E' il cane più miniaturizzato che abbia mai visto da che sono qui. E' un microbo giallo con le fattezze di un cane adulto e con una voce così stridula e insistente che gli ha sicuramente valso la sopravvivenza fino a oggi.
Mi siedo sulle ginocchia, abbassandomi il più possibile e parlandogli dolcemente lo faccio avvicinare.
Scodinzola forte, annusa le mie mani e decide che può fidarsi.
Ti vedo da lontano, sotto la luce del portico, che stai già ridendo guardandomi mentre torcia in una mano, cane nell'altra, arrivo con un sorriso che va da orecchio a orecchio.
Piange perchè è affamato e gli diamo l'unica cosa che abbiamo a disposizione: il latte in polvere.
Arriva anche Rumesh ridendo e tutti insieme lo guardiamo divertiti mentre divora tutta quella polvere di latte che gli imbianca il tartufo e le orecchie. Lo teniamo a dormire con noi, è troppo piccolo e affamato, qualcuno meno gentile potrebbe fargli del male per farlo smettere di guaire.
Ci mettiamo a letto e lo mettiamo sul tappetino ai nostri piedi, lasciandogli la porta aperta in caso volesse uscire. Dopo qualche ora lo sento zampettare fuori e ad un certo punto mi arriva il suo pianto disperato in lontananza. Mentalmente scuoto la testa, non è possibile addomesticare uno spirito libero. Noi gli abbiamo solo tolto un po' di fame. 
I giorni passano intensi, vorremmo fermarci oltre ma Mr Laxsman ci dice dispiaciuto che è tutto prenotato.
E' giunto il momento di spostarci di nuovo e salutiamo nel mattino acerbo questo angolo di paradiso, Mr Laxsman e Rumesh.
Sul tuk tuk rimaniamo in silenzio, come spesso accade quando dobbiamo terminare di assorbire anche un'ultima goccia di un posto che stiamo lasciando.
Una nuvoletta di polvere davanti a noi fa rallentare il tuk tuk.
Il piccolo cane ci sta puntando, è uscito dai cespugli e viene correndo verso di noi, ci guarda scodinzolando.
Lo salutiamo con gli occhi lucidi e ci chiediamo increduli se davvero ci abbia riconosciuto o è stato un caso. 
Ancora oggi voglio pensare che quando mi sono voltata a guardarlo fermo, in mezzo alla strada, seduto come un cane adulto, osservandoci mentre ce ne stavamo andando, lui ci abbia riconosciuto.

domenica 16 dicembre 2012

La morte e la resurrezione di Zio Tibia

Bundala Junction non è un paese, nè tantomeno un villaggio, è semplicemente un incrocio in corrispondenza dell'ingresso con il Bundala Park.
Tutt'intorno solo alberi, palmeti, cespugli, pozze d'acqua, uno scalcinato market che trasuda betel, la strada principale e il Lagoon Inn dove alloggiamo.
Una mattina notiamo un cane giallo sul ciglio della strada. E' morto, ha il sangue rappreso sul collo e sull'asfalto, probabilmente è stato investito dalla corsa folle di uno di quegli autobus che passano a velocità sostenuta. La testa è innaturalmente riversa e le zampe sono abbandonate scomposte.
I corvi se lo mangeranno nei prossimi giorni, addio piccolo sfortunato cane.
Arriva finalmente il nostro autobus per Hambantota dove dedicheremo una mattina alla perlustrazione di negozi, mini market e il mercato sul mare.
Al nostro rientro passiamo di nuovo davanti al piccolo cadavere ma un impercettibile movimento colpisce la nostra attenzione. Il poverino respira ancora, si lamenta, fa pipì, agonizza.
Un poco turbati ci chiediamo se abbiamo modo di aiutarlo a morire e di terminare così la sua sofferenza.
Il suo respiro è il rantolo di chi ormai desidera solo volare via.
Kamal è di ritorno dallo scalcinato market, ci raggiunge e lo vede.
Sparisce di nuovo nel market e torna con un pezzo di pane che gli spezza davanti al muso.
Non comprendiamo l'inutilità di quel gesto così sussurriamo: he's gonna die...
Yes, ci risponde mesto.
Torniamo con lui al Lagoon Inn in silenzio, è l'ultima sera che trascorreremo qui e dobbiamo preparare gli zaini per il giorno dopo.
Prima del buio esco di nuovo per comprare un po' d'acqua e le sigarette.
Il cane ha cambiato posizione e il pane davanti a lui è sparito. Il respiro è più affannato e mi sento di nuovo impotente di fronte alla sua inutile agonia. Non passerà la notte, penso, e qualche altro cane deve avergli mangiato le briciole che Kamal aveva preparato per lui.
La sua visione è di nuovo un colpo al cuore.
E' il 23 di gennaio, ci svegliamo presto per partire. Kamal ci accompagnerà alla bus station con il suo tuk tuk dove prenderemo un autobus per tornare a Tangalle.
L'idea di percorrere il lato orientale dello Sri Lanka è abbandonata per due ragioni: condizioni metereologiche avverse (troveremo lo strascico di un monsone) e il poco tempo a disposizione (causa tsunami e guerra molte linee ferroviarie sono interrotte e non avremmo tempo di tornare a Colombo in tempo utile per rientrare in Italia).
La decisione che prendiamo a malincuore è stemperata dall'idea di ritemprarci di nuovo a Marakollya Beach e come sempre non sbaglieremo intuizione.
Salutiamo Sunetra ringraziandola e abbracciandola forte.
E' emozionata e commossa, tira su con il naso e ci guarda da sotto la veranda mentre partiamo.
Fermi sul tuk tuk sul ciglio della strada in attesa di far passare altri tuk tuk e un autobus, volgiamo lo sguardo senza parlarci al cane moribondo pochi metri più in là.
Ma questa volta è lui a guardare noi. 
Accucciato, la testa ben dritta sulle spalle, le zampe composte, le orecchie ritte e attente, un accenno di scodinzolìo.
E' lo stesso cane che avremmo voluto uccidere, è proprio lui, Zio Tibia, tornato dall'inferno, sopravvissuto a traumi e ore di sole cocente, nel crocevia del nulla
Lo Sri Lanka è anche questo.
Nulla di magico, nulla di satanico.
Zio Tibia ha avuto la possibilità di scegliere se lasciarsi andare su quell'asfalto impregnato della sua urina e del suo sangue o su quell'asfalto riprendere le forze accettando le briciole di pane e scodinzolare ancora alla vita.
Questa storia ci ha fatto molto riflettere, abbiamo quasi sentito il brivido gelido dei nostri pensieri di poche ore prima, quando abbiamo pensato di finire le sue sofferenze, decidendo per lui, decidendo di non voler accettare quell'agonia. Perchè ci faceva male.
Abbiamo visto con occhi diversi l'apparente indifferenza di Kamal, che non l'ha aiutato a morire ma nemmeno a vivere. Gli ha solo ricordato di avere a disposizione una scelta, buttandogli il pane.
Nel tempo che è seguito, nei mesi che sono trascorsi da quel giorno, sono state tante le occasioni in cui abbiamo ripensato a Zio Tibia e al fatto che anche quando tutto sembra perduto e deciso, esiste sempre una scelta che possiamo decidere di compiere.





lunedì 3 dicembre 2012

Sunetra e Kamal

Siamo gli unici ospiti al Lagoon Inn, fatta eccezione per una simpatica e discreta signora tedesca che alloggia in una stanza di fianco a noi da tanto tempo poichè sta seguendo i lavori di costruzione della sua casa.
E' un'insegnante che ha deciso di trasferirsi in Sri Lanka continuando ad esercitare per i bambini singalesi e  possiede un fascino particolare. E' rubiconda, di mezza età, con capelli biondo cenere portati corti e con le guance e le braccia arrossate ma non abbronzate.
Al mattino sparisce dopo una buona colazione sulla terrazza per rientrare nel pomeriggio e ritirarsi in camera per dormire. 
Alla nostra partenza le lasceremo sul tavolo della colazione un biglietto cortese di commiato augurandole buona fortuna nelle sua nuova vita. Non è facile ad una certa età rimettersi in discussione e cambiare completamente il proprio modo di vivere. E' questo che ci ha affascinato di lei.
Sunetra e Kamal meritano una parentesi perchè è grazie a loro che qui ci siamo sentiti a casa. Non come a casa, bensì a casa.
Sunetra sembra un'indigena d'altri tempi.
La sua risata divertita e bambina la fa splendere di una luce particolare.
Parla poco inglese ma con temerarietà ci avvicina buttandosi in conversazioni impegnative.
Ha i capelli ricci ondulati sempre raccolti, tranne di mattina presto, al risveglio, e spesso indossa un abito smanicato a fiori lungo fino al polpaccio. Non porta le ciabatte e il suo modo di appoggiare i piedi sulla terra rossa del cortile invoglia a gettare via le scarpe per sempre.
Il suo regno è qui, in ogni anfratto della tenuta.
Va molto orgogliosa dei suoi stupendi fiori rossi che ogni sera annaffia con cura.
La sua cucina all'aperto sormontata giusto da una tettoia riparatrice dalla pioggia e dalle foglie, ha una nicchia di pietra dove il fuoco viene acceso con la legna ogni mattina.
Un piano di pietra serve alla preparazione dei cibi e il tavolo di legno sul lato opposto ospita qualche usurata suppellettile e un attrezzo per macinare la polpa di cocco. Sunetra prepara dei fogli di pasta dolce a base di cocco ad ogni colazione, da farcire con marmellate e frutta.
Sotto al porticato ben ordinate ci sono due macchine da cucire Singer che lei utilizza per rammendare e confezionare quadretti in stoffa e borse di cotone dipinte a mano.
Quando partiamo vuole fare una foto con me e vedendola ride divertita.
Ma nella foto lei appare diversa, più vecchia e più triste.
Le foto a volte rubano davvero l'anima?
Si commuove salutandoci, ha la dolcezza e l'ingenuità di una mente semplice con pensieri grandi, come quello di donarci alla domenica pomeriggio due ciotole di una squisita zuppa al pollo che sua sorella ha portato per lei e Kamal. Ce le offre sulla terrazza, chiedendoci prima con timore se per caso ci offendiamo.
Una delle zuppe più squisite che abbiamo mai mangiato.
Kamal è discreto, affabile, composto e curioso della nostra tecnologia.
Alla sera aiuta la moglie nella preparazione della cena, stende una tovaglia color carta da zucchero sulla tavola sotto al porticato e con molta calma e precisione apparecchia e porta le pietanze.
Si prodiga con discrezione per farci stare al meglio e per fare buona impressione.
Quando è in casa indossa un pareo lungo fino alle caviglie e null'altro. Ma con molta classe ed eleganza.
Una mattina ci chiede se desideriamo visitare Hambantota e si offre con il suo tuk tuk per accompagnarci.
Al nostro accettare sparisce pochi minuti per riapparire vestito di tutto punto con pantaloncini e camicia stirati di fresco, impeccabili.
Se coinvolto partecipa volentieri a conversazioni interessanti, sulla vita nello Sri Lanka, sugli aspetti positivi e negativi di vivere qui e su come sta andando il mondo.
Vedete quel muro rattoppato? ci chiede una sera divertito.
Il muro di confine con la casa a fianco presenta uno squarcio tra i mattoni rossi rattoppato da un nuovo muro di mattoni grigi.
Ci racconta che qualche giorno prima alle quattro del mattino i suoi fidi cani hanno cominciato ad abbaiare furiosamente. Un elefante, sentendo il profumo dolce delle banane mature al di là del muro di cinta, si è introdotto nel loro cortile distruggendo una parte del muro per riuscire a raggiungere il cibo prelibato.
Ce lo ha raccontato divertito e alzando le spalle, come a dire che se vivi in una riserva devi aspettarti questo e altro.
Uno dei suoi cani, una femmina marrone con un orecchio dritto e uno penzolante, ci ha adottati.
Quando scendiamo e ci addentriamo a piedi nel retro della casa, camminando tra sterpaglie, pozze d'acqua e orme secche di elefante, ci accompagna scrupolosa. Se ci allontaniamo oltre la zona che lei reputa sicura comincia a guaire fissandoci per poi arrivare ad abbaiare come per richiamarci all'ordine.
Mi accompagna al mattino presto quando scendo a stendere il bucato, aspetta che abbia finito e mi scorta fin sul primo gradino della scala che conduce alla nostra camera, senza mai salire.
Casa.

sabato 1 dicembre 2012

Bundala Park

Il risveglio al Bundala Park è quanto di più dolce possa esistere.
Ci sentiamo ospiti degli animali e della loro riserva. L'alba arriva con più naturalezza rispetto ad altre zone in cui siamo stati e questo accresce la meraviglia che proviamo sulla terrazza, in silenzio, con la nostra immancabile tazza di caffè, ad osservare il volo di ibis e marabu che solcano il cielo regalandoci un senso di unione con la natura assoluto.
L'aria è ancora fresca e rarefatta, le nostre tazze fumano sotto al nostro naso e ai nostri occhi avidi di immagini e il nostro silenzio lascia spazio al risveglio che armonicamente emette un suono che abbiamo dimenticato, quello della vita.
Oggi è il giorno della visita nel parco, dove è possibile entrare solo con una jeep ben equipaggiata e una guida (il battitore) che ci accompagna nella vastità della riserva.
Kamal ha organizzato la nostra missione e non appena terminata la nostra superba colazione preparata da Sunetra, arriva la jeep.
Partiamo armati di tutto punto. Armati di macchine fotografiche, obiettivi, zoom, macro, taccuini e la nostra fanciullesca curiosità.
Al nostro arrivo si aprono gli immensi cancelli del parco, quasi simili a quelli di Jurassik Park e la cosa ci fa sorridere, in seguito proprio ridere, pensando che dormiamo dentro al parco senza bisogno di battitori, jeep e permessi speciali.
Appena entrati pensiamo alla stranezza di poter vedere gli animali così vicini e liberi nel loro ambiente, perdendone quasi la naturalezza, ma è una sensazione che sparisce quando il battitore, un giovane singalese che sa il fatto suo ma non del tutto, ci spiega che tutti gli animali che avremo la fortuna di vedere anche da distanze molto ravvicinate, non sono abituati al contatto umano come lo intendiamo noi e ci considerano veramente dei meri visitatori, ma solo se rimaniamo al nostro posto. Ovvero: non si tocca nulla, non si lancia cibo, non si parla ad alta voce, non si scende mai dalla jeep se non autorizzati e soprattutto non ci si dimentica che siamo ospiti. Non ci si deve mai dimenticare il Rispetto.
Mi è difficile riportare ciò che abbiamo visto e provato, il rischio di cadere nella banalità o di far nascere la noia è presente sempre in chi racconta a chi non ha vissuto in prima persona.
Mi soffermo a fermare istanti particolari, inusuali così che la bellezza totale che abbiamo vissuto rimanga al di là di un buco di serratura dal quale si da un'occhiata immaginando il resto. Così che il resto possa diventare magia, sogno, immaginazione, curiosità. Voglia di aprire la porta e vedere quella bellezza.
Le scimmie sono ovunque ma non è facile vederle. Il battitore fa fermare la jeep e ci indica un punto tra gli alberi e lì, tra le foglie, una scimmia seduta con le zampe accavallate fissa l'orizzonte con aria assorta.
Altre scimmie sulla pianta al ciglio della strada non scappano al nostro arrivo; sono grigio argento con il muso nero e grandi sopracciglia che incorniciano occhi indagatori. Ci osservano, a lungo, sbadigliando e sistemandosi quelle folte sopracciglia.
Per un attimo ho la sensazione che siano loro ad osservare noi, così diversi ma alla fine così inquietantemente uguali.
Un falco crestato non si fa intimidire poco dopo dal rumore del nostro mezzo.
Ha una preda tra gli artigli, un uccellino ancora caldo che dilania con voracità, senza perderci mai di vista.
L'elefante è apparso all'improvviso, con grande soddisfazione del battitore che ci spiega che è rarissimo vederlo, vedere proprio lui, l'elefante maschio solitario, con le sue enormi zanne integre.
Deve essere un personaggio particolare, un tipo poco raccomandabile.
Scopriamo che l'elefante gode, nonostante la sua mole, di una capacità di mimetismo incredibile.
Il giovane e solitario maschio se ne sta nascosto dietro ad un alberello, aspettandoci. Ma praticamente invisibile.
Fermiamo la jeep e lui esce venendoci incontro.
Sento crescere la paura e la meraviglia in uguali proporzioni. E' bellissimo e determinato.
Ci osserva strappando i rami dell'alberello, fingendo di mangiucchiare qua e là, in realtà è sospettoso e piuttosto adirato. Anche se ancora lo nasconde.
Comincia una curiosa manovra di avvicinamento, una specie di danza silenziosa e pacata.
Avanza verso di noi, indietreggia senza voltarsi ma allargando passo passo il suo raggio così che ad ogni avanzata segue un indietreggiamento con direzione laterale. In poche abili manovre dal fronte della jeep (cabinato e protetto) ce lo troviamo sul retro dove l'apertura del mezzo gli consente una perfetta visione di noi e dei nostri movimenti ma soprattutto la percezione della nostra assoluta violabilità.
Per un attimo penso o forse spero che la manovra di aggiramento sia volontà di allontanarsi indisturbato.
Errore.
Sparisce di nuovo dietro ad un misero alberello per poi riapparire con uno scatto deciso sradicandolo con violenza. Vuole intimorirci e volentieri caricarci. Con gentile fermezza dico al battitore che possiamo anche andare ma lui ridendo ci dice che è solo scena. La cosa non mi tranquillizza per niente, vista la mia ultima e unica esperienza con un suo simile.
Si riempie la proboscide di acqua da una pozza vicina per spruzzarci sfrontatamente.
Il battitore da ordine di rimettere in moto e lancia un "ohh" gutturale e duro all'elefante per spaventarlo.
Lui si nasconde dietro ad un altro alberello secco per sfondarlo con un colpo di zanne.Di nuovo un "ohh" e l'elefante si blocca ma senza mai indietreggiare. La jeep lentamente comincia a muoversi e l'elefante prende a seguirci con il suo passo pesante e minaccioso.
In quel momento avrei voluto spingere forte sull'acceleratore.
Ci allontaniamo tra "ohh" e piccole cariche ma finalmente siamo lontani e lo vediamo fermo in mezzo alla strada di terra battuta a controllare i nostri movimenti.
Ci addentriamo in sentieri più stretti tra paludi e distese aperte e di nuovo macchie di vegetazione fitta.
Coccodrilli, ibis, bufali, bisonti, kingfisher, varani, cerbiatti, marabu, parrocchetti, donnole e puzzole.
Un ruggito profondo ci fa tremare. Fermiamo la jeep e mi chiedo se è proprio necessario. Il ruggito si ripete ancora più vicino e scopriamo che non  è un ruggito ma un barrito.
Di nuovo elefanti, di nuovo mimetizzati a un passo da noi.
Escono un grande adulto con il piccolo affrontandoci con lo sguardo.
Poco dietro altri tre elefanti si muovono tra gli alberi e la madre con il piccolo ci butta la terra addosso con la zampa. Non siamo molto graditi e questa volta ripartiamo subito. Per fortuna.
La strada prosegue fino ad arrivare ad alcune alture da dove arriva forte il profumo del mare e infatti varcata la collina ci troviamo in un piccolo spiazzo a strapiombo sugli scogli.
La visione è mozzafiato.
Scendiamo e il battitore ci fa segno di guardare laggiù, tra i flutti e la schiuma ed è là che le vediamo: le tartarughe marine. Sfidando onde burrascose emergono di tanto in tanto con la testa per poi rituffarsi nel blu.
Il vento forte copre le nostre parole, che sono poche in verità di fronte a tanta intensità.
Un cane mi si avvicina scodinzolando, vuole fare amicizia sperando che io abbia qualche boccone da dargli in cambio.Ma ho solo carezze che lui prende senza troppi problemi.
Risaliamo a bordo e ci allontaniamo con il sole che da lì a poco sarebbe tramontato alle nostre spalle e con gli occhi pieni di vita.



lunedì 26 novembre 2012

Bundala Junction ovvero il crocevia del nulla

Desideriamo spingerci più a Sud, allontanarci ulteriormente dalle mete turistiche più trafficate e vedere con lo sguardo ormai purificato cosa è lo Sri Lanka, chi sono i singalesi, com'è la natura.
Nonostante i nostri progetti siano di dirigersi a Tyssa o Kirinda, ci lasciamo convincere da Mr Laxsman (sì, il burbero, inospitale, rigido Mr Laxsman) di fermarci appena fuori Hambantota in una guest house appena aperta immersa nella natura.
E' difficoltoso fidarsi di consigli di questo tipo, poichè è tipicamente insita negli orientali avvezzi al turismo la tendenza a farti seguire il percorso che loro hanno già deciso per te. A volte è necessaria una sensibilità speciale, sottile come il foro di una piccola serratura, per cogliere quelli che si riveleranno consigli preziosi, quei consigli che raramente troverai nella vita. Sarà questo il caso.
Il Lagoon Inn è in un non luogo che viene chiamato Bundala Junction, dove Bundala è il nome della grande riserva naturale che si trova a sud dello Sri Lanka e Junction sta per giunzione, vale a dire crocevia, incrocio di strade, insomma un non luogo.
Mr Laxsman si prodiga in elogi sottolineando che la struttura, appena aperta, è molto economica, pulita e accogliente e gestita da persone adorabili. Seguiamo il nostro istinto e non appena accettiamo il falso burbero si presta per effettuare lui stesso la prenotazione, non senza pregarci di segnalare la nostra scelta a Tripadvisor per fare un po' di pubblicità.
La mattina seguente troviamo un tuk tuk chiamato apposta per noi che ci accompagna alla trafficatissima bus station di Tangalle dove prendiamo posto per la seconda volta sul famigerato autobus rosso, un po' più recente del precedente, e ci mettiamo in viaggio.
Da Tangalle in poi le strade diventano meno trafficate e cominciano ad apparire i posti di blocco militarizzati che sono stati roccaforte della recente e sanguinosa vicenda tamil e devo dire che suscitano sempre un po' di inquietudine, soprattutto perchè i militari sono ancora presenti, ben armati e in mimetica.
Benchè la situazione sia ormai tranquilla non possiamo non provare un senso di stridente timore.
Questi erano i luoghi dove sono avvenute molte esecuzioni.
Non dobbiamo chiedere dove scendere perchè l'equipaggio di bordo (costituito dall'autista e dall'aiutante che gestisce la salita e la discesa dei passeggeri) è molto più efficiente di quanto si possa credere e mi ricorda molto la brigata degli zingari di mare della Thailandia che fanno salire sulle imbarcazioni i turisti chiedendo loro la destinazione e posizionando i bagagli in modo tale da non creare ritardi nella discesa. Basta sedersi, godersi il viaggio e aspettare un loro cenno che significa: è il vostro turno, tra poco dovete scendere. Semplice, no?
Superiamo il paesino di Hambantota con una breve sosta alla immancabile bus station e guardandoci negli occhi ci diciamo senza parlare che ci piace già.
Hambantota è sul mare, con tanti piccoli negozi genuini (non necessariamente per turisti) dislocati qua e là e un mercato fisso dove facciamo in tempo a vedere contrattazioni per pesci, verdure e caschi di banane.
Ripartiamo e a seguire sul lato sinistro si aprono enormi saline che danno l'idea di ordine e pulizia.
Comincia a crescere l'attesa di vedere cosa è questo Bundala Junction e dopo poco lo scopriamo.
La strada arriva ad un bivio dove non c'è nulla se non una baracca storta e buia che funge da piccolo emporio per generi di prima necessità: acqua, succhi di frutta, banane e l'immancabile betel.
L'autista ci fa la cortesia di fermarsi anzichè semplicemente decelerare come sarebbe la consuetudine, così che possiamo scendere tranquillamente senza il rischio di volare nel fossato adiacente.
Rimaniamo come due pellegrini sulla strada e ci viene da ridere: non c'è nulla ma proprio nulla, eccetto la strada e la capanna storta, dove un uomo senza denti che comunque non si fa mancare il sorriso ci osserva sornione. Chiediamo del Lagoon Inn e lui ci fa cenno indietro, un po' più indietro, sulla sinistra, dove appare il cartello grande e verde.
Camminiamo verso il cartello e giungiamo ad un cancello varcato il quale un piccolo signore singalese ci accoglie sorridendo. E' Mr Kamal, il proprietario insieme alla moglie Sunetra.
Ci fa entrare sotto alla veranda fresca e pulita, ci presenta la moglie e ci accompagna oltre la veranda dove sulla sinistra è dislocata la cucina all'aperto, un piano in pietra profondo che termina con un camino sollevato da terra dove la brace è sempre viva.
Si apre quindi un giardino sul retro dove una seconda struttura a due piani di colore verde sarà la nostra sistemazione. Saliamo le scale e ci troviamo su una delle terrazze più belle ed emozionanti che troveremo in Sri Lanka, ma lo scopriremo solo dopo.
La camera è pulita e spaziosa con la finestra e la porta direttamente sulla terrazza. Il bagno è luminoso e funzionale con asciugamani puliti e un profumo di incenso leggero.
Dopo poco Sunetra riappare con un vassoio e due succhi di frutta freschi che ci lascia sul tavolino in terrazza, da dove riesco a scorgere la cucina e i resti dell'ananas che ha spremuto per noi. Ed è già poesia.
Non siamo nella natura, siamo direttamente dentro al Bundala Park.
Non bisogna farsi scoraggiare dal fatto che la guest house è sulla strada principale poichè quando arriva la sera o quando sorge il sole, la ventilata terrazza dove la nostra stanza si apre, è un affaccio senza parole sulla natura incontaminata.
In lontananza il filo dell'orizzonte è dato dalle chiome piatte degli alberi che, dove mancano, lasciano l'occhio vagare in pozze d'acqua, fonte di ristoro per uccelli, coccodrilli, bisonti, elefanti e scimmie. Oltre quel filo, il mare che però da qui non si vede ma si percepisce come un grandioso mantice pulsante.
Piano piano scende la sera, da lontano arrivano cori sommessi buddhisti, odore di incenso e foglie di cocco bruciate, la pozza d'acqua sotto alla nostra terrazza si anima di bufali tranquilli dai grandi occhi neri e tra i cespugli si muovono strane creature.
Alziamo gli occhi al soffitto e lo troviamo ricoperto di geki a caccia di insetti e zanzare, il passo felpato di Sunetra ci sorprende così, con il naso all'insù.
Non parla inglese ma capiamo che ci chiede se desideriamo cenare e le diciamo sì, certo, senza chiedere cosa preparerà. Non siamo in un ristorante, siamo in una speciale guest house dove ci siamo affidati ai signori che la abitano.
Non passa nemmeno una ventina di minuti che Sunetra con orgoglio ci fa cenno di scendere e troviamo la grande tavola sotto alla veranda apparecchiata solo per noi.
Sulla tovaglia pulita e ben stirata color carta da zucchero, troviamo una enorme ciotola di fried rice con verdure e pollo, ciotole di diversi tipi di curry da mescolare al riso che sembrano tanti grossi coriandoli colorati di rosso arancio e verde, birra ghiacciata e una terrina di curd, il tipico e fresco yogurt di latte di bufala che viene confezionato in ciotole di terracotta molto caratteristiche e viene consumato da solo o abbinato al kitul, lo sciroppo simile alla melassa.
Una cena squisita per gli occhi e per il palato.
Dormiremo tranquilli cullati dal rumore della foresta.



lunedì 19 novembre 2012

La vita in una cabana sulla spiaggia

Avere tempo per sè, per scrivere parlare dormire mangiare amare pensare guardare osservare leggere ridere non pensare. Tante sono le cose che si possono fare a Marakollya. Non ho mai avuto un momento di noia.
Il Mangrove è un piccolo sanatorio per anime stanche, dove lo spirito bambino si risveglia nelle casette di legno tra botole segrete, lenzuola colorate e torce per la notte; è una culla per amarsi con calma, dormendo sotto al silenzio vorticoso delle stelle e svegliandosi tra i cinguettii e il profumo fresco delle onde; è una stanza nuda, dove passeggiare con il proprio pensiero tenendosi per mano, l'unico contatto in quel soliloquio o sedersi fronte uno all'altro e riempire quel silenzio di parole racconti emozioni, senza trovarsi mai con nulla da dire.
Ogni mattina un piccolo scoiattolo zampetta sul trave portante della nostra cabana con il muso pieno di piccoli legnetti, corde, foglie secche, corteccia per depositarla nel globo di vimini del lampadario sopra alle nostre teste.
Ogni mattina mi godo quello spettacolo di lui che si affaccia sul nostro letto, osserva bene che nessuno sia sveglio o in movimento e lesto corre al centro del trave, si cala dallo stelo del lampadario e si tuffa nel cesto che per qualche minuto ciondola, sobbalza, si scuote: metter su casa non è un'impresa facile.
Dopo poco rispunta sullo stelo, ripercorre la strada a ritroso e sparisce sul tetto. Poi torna con un nuovo carico, avanti e indietro laboriosamente fino a che non ci alziamo da letto e non può più agire indisturbato.
La vita comporta fervore e lavorio tenace.
Prepariamo il nostro caffè mattutino, il più bello, il più buono.
La vecchia e sgangherata resistenza indiana non ci abbandona mai; a Matara abbiamo preso due tazze di ceramica colorata made in Sri Lanka, come ormai di consueto in ogni nostro viaggio e due cucchiaini in melammina per stemperare il latte in polvere.
Ci sediamo con l'alba che arriva alle spalle sotto al porticato e fissiamo il mare, costellato qua e là da pescatori al rientro.
Tutto ancora è soffuso, le nostre voci, i colori, il caldo e la luce tranne i cinguettii.
E' solo a quest'ora che si possono vedere gli uccelli più colorati volteggiare impazziti; ho sempre pensato che fosse il loro modo di comunicare la gioia del buongiorno.
Buongiorno buongiorno! sembrano urlarsi in cielo e sui rami.
Uccelli gialli con le ali nere, king fisher, cormorani, uccellini verdi, uccellini bianchi con le ali rosate e gli immancabili bellissimi fieri corvi giganti. Non è proprio qui che me ne innamorerò, ma comincio ad osservarli con discreto interesse.
Un varano esce allo scoperto, lento e serafico. 
I gechi che durante la notte si erano dati un gran da fare sotto alla luce del portico sono andati a dormire e una mantide religiosa sullo stipite della porta ruota il capino fissandoci in modo inquietante con i suoi grandi occhi triangolari.
Facciamo colazione, seconda razione di caffè e cibo a scelta tra fette di toast, frutta fresca, riso, uova, noodles, succo di frutta.
Siamo pronti per il lato destro della spiaggia, quello più trafficato se per traffico si può intendere tre strutture a debita distanza l'una dall'altra, un bar, una minuscola casa abitata e in lontananza il porto di Tangalle, così lontano che non arrivano che le immagini mute, senza sonoro.
Scopriamo un'ansa del fiume di acqua dolce dietro ad una duna di sabbia e immediatamente andiamo in perlustrazione.
L'acqua è verde, in alcuni tratti emerge una vegetazione grassa e abbondante. Sicuramente è popolata da coccodrilli e speriamo di vederne almeno uno. Ma non succederà.
Marakollya Beach sorge tra lagune di mangrovie il cui incremento è favorito dai fondi dei pochi proprietari di strutture turistiche che destinano una piccola percentuale del guadagnato alla preservazione della natura circostante.
Arrivando con il tuk tuk abbiamo notato le grandi distese di acqua abitate da cormorani neri e uccellini bianchi dalle lunghe zampe. Non è riserva ma è come se lo fosse, tale è l'attenzione e la cura.
Un bagno nella piscina naturale e una lunga passeggiata per rientrare alla cabana; abbiamo mille cose da fare, bere il nostro tea freddo alla menta, guardarci un film, leggere un capitolo dei nostri libri di Simenon (Georges ci accompagna nei nostri viaggi lunghi), dormire al sole e prepararci per la nostra cena a lume di candela sotto le stelle.
Le cose che ci preoccupano di più sono cosa scegliere di mangiare e in quale avventura cacciarsi l'indomani.
Ma sono preoccupazioni che lasciano il tempo che trovano, siamo noi ad essere scelti dalle avventure e quanto al cibo si deve provare tutto, se no che gusto c'è?

domenica 18 novembre 2012

Equazione Marakollya Beach

Esiste uno strana equazione qui a Marakollya Beach che è data dal curioso rapporto tra la distanza con la città, la strada e la confusione (misurata in kilometri) e il numero di avventure ed emozioni che si incontrano (misurato in felicità): maggiore è la distanza, maggiore è la felicità.
Cominciamo con il dire che Marakollya Beach è più vasta della vastità che deriva dalla sua visione.
La spiaggia non è una distesa piatta da attraversare ad occhi chiusi bensì una susseguirsi di dune a volte garbate a volte impertinenti che richiedono una certa concentrazione.
L'accesso al mare è difficoltoso,  in diversi punti scosceso, in altri pianeggiante ma tormentato da un letto di conchiglie sminuzzate e taglienti che diventano un'insidiosa trappola.
E il mare, questo mare infinito immenso vorace e tumultuoso da qui al Polo Sud, è spesso rabbioso, fa la voce grossa e onde schiumose, è attraversato da correnti nascoste e pericolose.
Ma dove enormi rocce simili a piattaforme imbrigliano le onde facendole diventare una piscina naturale di acqua salata, allora qui il mare è una culla cristallina e dolce in cui passare momenti molto piacevoli.
Ovunque si volga lo sguardo, qui sulla spiaggia, lo sguardo si perde in una ridondanza di luce, di blu e di verde. E' un posto magico, qualcuno ha spento l'interruttore del tempo come lo conosciamo e non ha alcuna intenzione di riaccenderlo.
Le nostre passeggiate si svolgono come d'abitudine all'ora X, l'ora più favorevole, l'ora in cui il sole fonde i granelli di sabbia e spaventa perfino i varani dalla pellaccia dura.
Ma noi non ce ne curiamo, usciamo dalla nostra cabana e decidiamo semplicemente se destra o sinistra.
Oggi sinistra, dove la spiaggia prosegue fino a diventare un miraggio lontano senza altri essere umani o capanne o barche: solo questa autostrada a dossi davanti a noi, il blu alla nostra destra e la foresta alla nostra sinistra.
Alterniamo i nostri passi sulla sabbia bagnata perchè la temperatura è decisamente rovente e ovviamente  la nostra dotazione di esploratori comprende: costume, macchina fotografica, cannone per macchina fotografica e basta. Niente acqua, ciabatte, cappello. E beh, the courageous.
Non abbiamo la minima intenzione di tornare indietro ma ci perdiamo in risate e chiacchiere, fino a quando davanti a noi, da destra a sinistra, una luce blu ci attraversa la strada, cioè la sabbia.
Quella luce è un pavone bellissimo, colorato, perfetto, aggraziato che danza sulla sabbia e sparisce dentro la foresta.
Siamo probabilmente in una versione singalese di Alice nel Paese delle Meraviglie dove il nostro Bianconiglio è un pavone e noi lo inseguiamo.
Ci infiliamo tra due cespugli facendo attenzione a non graffiarci con i rovi e ci troviamo sotto ad un tetto altissimo di palme dove il cielo si intravvede solo qua e là.
La sabbia è ricoperta da muschio spinoso e duro, situazione non proprio felice per i nostri piedi già irritati dal bollore della spiaggia.
Ma in lontananza riappare il nostro pavone, ondeggia la ruota chiusa con un movimento elegante che ci ipnotizza. Cauti e il più possibile silenziosi avanziamo. La striscia di sabbia e rovi termina verso l'interno con un prato più fitto e all'apparenza più morbido, le palme lasciano spazio ad alberi ad alto fusto ma più larghi e fitti. Ci fermiamo un attimo a osservare la quantità impressionante di uccellini che giocano nel cielo quando improvvisamente un rumore alle nostre spalle ci fa girare di scatto.
Un uomo in divisa marrone con un berretto militare in testa ci raggiunge con calma.
Ha i pantaloni arrotolati al polpaccio e indossa un paio di ciabatte infradito, ha le mani nascoste dietro la schiena e un sorriso beffardo sulla faccia consumata dal sole.
Nel suo incedere è elegante e sicuro di sè ma poco rassicurante per noi.
Ha una targhetta di ottone sul taschino della camicia ben stirata e pulita che io non riesco a leggere e ci sorride inclinando leggermente la testa: Come, come with me in my garden.
Accompagna al "my garden" il gesto della mano a indicarci tutta la zona in cui siamo e nella mano tiene con molta naturalezza un machete.
L'uomo ci fa cenno di seguirlo, ci sorpassa e ci ripete: I'm the guardian and this is my garden, come!
Bene, dopo il Bianconiglio, tu chi sei? ci verrebbe da chiedere. Il cappellaio matto??
Lo seguiamo e strategicamente evitiamo di dargli entrambi le spalle.
Procede velocizzando il passo fermandosi di tanto in tanto e facendoci cenno con la mano di seguirlo e i suoi modi sono dolci, dolci con un machete in mano, ma dolci e garbati.
Mi muovo a fatica, i rovi cominciano a diventare sempre più fitti ma finalmente lasciamo la sabbia muschiata e raggiungiamo il tappeto verde. Sotto al tappeto verde non sembra più esserci la sabbia ma uno strato di sale grosso e mano a mano che ci addentriamo in alcuni punti calpestiamo pozze acquitrinose. Il rumore del mare ormai è assente, ci siamo allontanati molto dalla spiaggia e ci siamo addentrati in una foresta dove gli unici rumori sono i cinguettii degli uccellini e di tanto in tanto il grido strozzato tipico dei pavoni. 
"Elepant" ci indica in un punto alla nostra sinistra e vediamo montagne di cacca di elefante, qui, sulla spiaggia o quasi.
La paura occidentale, del resto motivata, direbbe che è una trappola, ci ha fatto allontanare dalla spiaggia e ora dal sentiero battuto, lo spirito singalese dice invece che ci ha fatti allontanare per proteggere i nostri piedi nudi e doloranti e per consentirci di vedere la natura di cui lui stesso va orgoglioso.
Ci indica il cielo e appare un'aquila che mentre tu fotografi con il cannone, io fingo di osservare ma in realtà il mio sguardo è su quel machete che ha cominciato a ballare da una mano all'altra con molta tranquillità.
Vorrebbe che ci addentrassimo ancora di più e in lontananza vedo il buio della foresta aumentare, mentre guardando verso il mare o dove immagino che vi sia il mare, non scorgo altro che una fitta barriera di cespugli priva di varchi per raggiungere la spiaggia.
Il disagio ma soprattutto la stanchezza e il dolore ai piedi ci fanno desistere e con molta cortesia gli diciamo che ci fermiamo. E qui succede l'imprevedibile.
Si avvicina a me, si sfila le sue ciabatte e me le porge. Please, sorridendo.
Sono imbarazzata, ringrazio farfugliando e vergognandomi un poco. Tu rimani a guardarlo e ti leggo lo sguardo. 
Ma cosa ci è successo per commuoverci di fronte ad un gesto di semplice altruismo? cosa è successo al nostro mondo da farci dubitare anche della nostra ombra? quand'è che abbiamo perso la nostra ingenuità e la nostra genuinità?
Capisce o forse no il nostro imbarazzo e capisce anche che non siamo in grado di ritrovare il varco per ritornare sulla spiaggia. Un varano si arrampica lesto sul tronco di una palma vicino a noi e lui se ne meraviglia come se la vedesse con i nostri occhi, occhi che non sono abituati al contatto con tutta questa natura.
Quand'è che abbiamo perso l'incanto nei nostri occhi? quand'è che abbiamo smesso di emozionarci di fronte alle meraviglie della natura?
Ci indica un passaggio che mai avremmo individuato, nascosto tra due cespugli e dopo averlo ringraziato tanto, ci troviamo nella luce abbacinante e rassicurante della spiaggia.
Mi sento una stupida ma lo Sri Lanka è anche questo, farti sentire stupido nella tua falsa sicurezza occidentale, perchè questa avventura benchè la si possa leggere in due modi diversi, ha solo una versione.
Marakollya Beach è l'equazione di un paradiso talmente perduto che a volte può anche fare male.


venerdì 16 novembre 2012

Marakollya Beach, dove le visioni prendono vita

Lasciamo anche la caotica Matara a bordo di un autobus fatiscente.
Sotto ai miei piedi si apre un buco così grande che posso vedere la strada correre ma come sempre mi fermo a riflettere.
I sedili sono in ordine, alcuni sono rattoppati, le tendine che svolazzano sembrano pulite e non vi sono scritte o disegni osceni a imbrattare le pareti. Si avverte un rispettoso riguardo nelle strutture a uso e consumo di tutti e il buco sotto ai miei piedi è dovuto certo all'usura non ad un atto vandalico.
Il vantaggio di viaggiare su queste carovane vecchie e lente è indubbiamente proprio nella lentezza; in Sri Lanka guidano come pazzi, vanno a velocità folli mettendosi ogni volta in pericolo, spesso si buttano in sorpassi azzardati in prossimità di curve senza visibilità, viaggiando a tutto gas invadendo completamente l'altra corsia.
Ma con questi vecchietti non si rischia nulla, al più la perdita di una scarpa giù dal buco arrugginito!
Inoltre si può guardare fuori dal finestrino godendosi il paesaggio senza rischiare di vomitare e ad ogni bus station importante sale il venditore di dolcetti o il venditore di frutta fresca, a seconda del momento della giornata (la bus station è importante quando l'autobus si ferma per più di cinque minuti aspettando pazientemente la salita e la discesa delle persone, diversamente questo avviene ad autobus in corsa con somma preoccupazione per noi occidentali non allenati).
Insomma, un viaggio in autobus (vecchio e possibilmente rosso) qui nel sud dello Sri Lanka è un'esperienza da non farsi mancare.
Per un lungo tratto costeggiamo il mare e la visione fa sempre bene agli occhi e al cuore poi puntiamo improvvisamente verso l'entroterra, inerpicandoci per una strada stretta e chiusa tra le case, tanto che nell'incrociare un autobus gemello dobbiamo letteralmente fermarci, buttarci verso il bordo della strada e muoverci centimetro per centimetro tra le urla dell'autista e quelle del suo fido aiutante che controlla gli eventuali punti di contatto.
Ridendo e scherzando ci mettiamo una buona mezz'oretta per affiancare l'altro autobus ma evidentemente era previsto nella tabella di marcia perchè siamo in perfetto orario.
La nostra meta è Tangalle, un paesino di pescatori nel profondo sud, poco battuto dai turisti e molto amato da chi è fortunato di passarvi qualche giorno.
Scesi dall'autobus ci guardiamo un poco intorno, beviamo qualcosa di fresco e chiamiamo il primo tuk tuk della lunga fila parcheggiata sotto ad un enorme ficus.
In realtà non abbiamo prenotazione ma solo destinazione; tra le diverse spiagge che ci sono in questa zona, quella di Marakollya ha catturato la nostra attenzione per l'isolamento di cui le guide fanno menzione.
E non ci sbaglieremo.
Il tuk tuk ci mette quasi una mezz'ora a portarci a Marakollya, ci addentriamo in radure semi paludose dove la natura prende il sopravvento mano a mano che ci allontaniamo dalla strada principale e percorriamo un budello di terra rossa battuta pieno di buche e avvallamenti.
Per un attimo mi sento spaesata, non riesco ad orientarmi e soprattutto non capisco dove sia il mare in tutta questa radura vasta e rigogliosa dove uccellini di ogni forma e colore ci osservano per nulla impauriti.
Chiediamo del Mangrove Cabanas e arriviamo quando la strada finisce. Ma ancora non vedo il mare.
Scendo per chiedere disponibilità, prezzi e per dare un'occhiatina. E poi si sa, la prima impressione la dice tutta (oggi mi sbaglierò).
Salgo la collinetta su cui sorge una struttura fatta a pagoda ma completamente aperta tranne che su un lato dove è situato il bancone reception e la cucina e lì il mare lo vedo, o meglio ne vengo travolta.
L'infinito di Leopardi qui si realizza perchè io vado oltre la siepe e la penombra data da questa fantastica struttura si rompe improvvisamente là in fondo dove la luce della sabbia gialla e il blu intenso del mare sono così intensi e potenti da mozzare il fiato.
Qui c'è solo la voce delle onde e nient'altro.
Ho come un capogiro perchè è troppo forte l'impatto con la natura e con l'assenza di rumore se non quello del mare.
Il signor Laxman è un signore alto e serioso, dai modi troppo professionali e distanti, ma è solo un'impressione perchè sarà lui, al nostro secondo soggiorno, che ci accoglierà con il sorriso e un abbraccio.
Comunque, il signor Laxman di primo acchito fa venir voglia di andarsene un po' seccati. Ed è quello che facciamo. Ringrazio educatamente, il posto è stupendo, la sistemazione non l'ho vista ma trattasi di bungalow indipendenti sulla spiaggia, il prezzo è  molto affrontabile, ma lui è proprio indisponente.
Torno sul tuk tuk e decidiamo di chiedere alla costruzione a fianco, una specie di casa in stile vittoriano che, come ci dice il nostro autista, ha solo tre camere a buoni prezzi.
Ma il nostro destino era già segnato, giusto il tempo di guardarci negli occhi e scusarsi con il nostro autista per farci riportare dal famigerato signor Laxman.
Il nostro istinto ci dice "là" e il nostro istinto raramente sbaglia.
Freddamente ci chiede i documenti, ci fa firmare i moduli di rito e ci fa accompagnare alla cabana numero tre.
Le cabanas in totale sono cinque, tutte disposte sulla spiaggia ma a scalare in modo che nessuno disturbi nessuno e separate l'una dall'altra da un viottolo di sabbia e una siepe di palme. Interamente in legno, dispongono ognuna di un ampio portichetto con seduta e tavolino. Il numero sulla porta di ingresso è stato costruito con le conchiglie e gli da un non so che di robinson crusoe.
La stanza è ampia, pulita, con letto sormontato da zanzariera, comodino con lanterna per le escursioni notturne sulla spiaggia, mensola e appendiabiti. Sul pavimento si nasconde una fantastica botola quadrata che da l'accesso all'enorme bagno sotto terra, pulito e profumato con asciugamani colorati di spugna morbida.
Uscendo dalla nostra abitazione è sufficiente fare tre scalini per appoggiare i piedi sulla sabbia, percorrere una ventina o forse anche più di passi e trovarsi a fissare il mare.
E quando alla sera o alla mattina presto fissi questo mare pensando che non vi è terra fino al Polo Sud, un brivido che pare più un'esplosione ti attraversa l'anima e dolcemente ti stordisce.
Qui appoggiamo i nostri zaini dimenticandoceli.

domenica 11 novembre 2012

Salutando Matara

E' ora di spostarsi.
Sono gli ultimi giorni che trascorreremo a Matara e solo qui abbiamo fino ad ora assaporato il distacco dal mondo che abbiamo lasciato e la vicinanza con i singalesi e la loro terra.
Ci sentiamo a casa, la mamma di Tania al pomeriggio ci offre la torta fatta in casa senza troppe smancerie, come se abitassimo lì da sempre.
Ogni mattina ci sveglia il rumore secco della scopa di saggina sulla terra battuta nel cortile della prigione; la pulizia è accurata e minuziosa e può durare anche una mezz'ora buona.
Il carcerato a piedi nudi in calzoncini e camicia bianchi di cotone deve lustrare il cortile e liberarlo dalle foglie e dalla polvere.
Dall'altro lato della stradina e cioè nel nostro cortile gli fa eco la bambina che abita questa casa, credo sia la figlia della tata di Tania. A piedi nudi accudisce il giardino e il cortile, spazza accuratamente, innaffia ogni pianta, ramo, prato, terra e anche le piante in riva al fiume.
Recupera i rifiuti della sera precedente e li getta nel fiume, siano essi residui di cibo o pezzi di mobile sfasciato.
Il piccolo patio sotto le palme in cortile viene lavato e ripulito dalla terra rossa che ogni sera lo ricopre.
La bambina sparisce poi nel retro per riapparire di tanto in tanto con qualche nuova mansione.
E' come una piccola orchestra: il suono sincopato della scopa di saggina e lo zampillare dell'acqua della canna per innaffiare e su questo sottofondo ritmico le guardie del carcere, lasciandosi le consegne e raccontandosi aneddoti a voce alta, sono come i corvi al sorgere del sole quando cominciano a parlarsi con quel tono strozzato e insistente per raccontarsi chissà che avventure.
In lontananza arrivano gli squittii delle volpi volanti che vanno a letto, risatine maligne e divertite che fanno sussultare ogni volta.
A mano a mano che la nebbiolina sul fiume viene assorbita e la luce si fa più prepotente, l'orchestra si arricchisce di nuovi elementi tanto da divenire una confusa sinfonia.
I nostri zaini sono pronti, dobbiamo prendere un autobus alla bus station di fianco al mercato. La nostra destinazione questa volta è più lontana e più isolata, stiamo andando per gradi, ora siamo pronti all'isolamento o quasi.
Tania è gentile, ci accompagna con il suo Suv impeccabile alla stazione degli autobus.
Ci fa attraversare la sua casa dove abita con diversi domestici e domestiche.
La cucina è uno stanzone giallo zafferano con piccole finestrelle e le stoviglie blu e azzurre che sbucano dalle mensole sembrano pezzi di cielo.
Sbuchiamo sul davanti della casa dopo un dedalo di corridoi, saliamo a bordo e oltrepassando l'ordinato giardino usciamo in strada lasciandoci alle spalle lo steccato più bianco che abbia mai visto.
Ci racconta nei pochi metri che ci separano dalla stazione che lei e suo marito sono due avvocati. Lei è di Colombo, la capitale, suo marito è di Matara. Lei non pratica più, bada ai suoi due bimbi piccoli e ci spiega che il lavoro e la frenesia della capitale le mancano, ma in realtà solo a tratti.
Ci lascia nel parcheggio della bus station dimenticando per un attimo che siamo stati suoi ospiti e che dobbiamo pagarle le notti trascorse nella sua struttura.
Ride divertita, mette le rupie nel vano porta oggetti e ci bacia prima di farci scendere.
Rimaniamo solo alcuni secondi a guardarla mentre si allontana e sentiamo che si è chiusa un'avventura, una porzione di emozioni, una porta.
Cerchiamo il nostro autobus, sarà il nostro limbo fino a destinazione.
Mentre prendiamo posto su un vecchio mezzo rosso e tondeggiante non posso non notare la capra gigante alla fermata a fianco. Bruca lentamente qualcosa e mi fissa.
Per un attimo ho come la sensazione di vederla solo io.

mercoledì 7 novembre 2012

Matara_piccole avventure

Il mercato di Matara è un concentrato di odori, sapori e colori.
Si trova di fronte alla grande stazione di autobus, separata dal "mare che non c'è" da una strada principale.
Ripensandoci questo è un luogo strano, di quelli che potrebbero anche non esistere se non come ricordo di uno strano sogno.
La casa sul fiume, la prigione così vicina che dalla finestrella del bagno si può vedere il cortile interno, una grande stazione di autobus affollata e rumorosa dove spesso si trovano anche buffe capre di maxi taglia che tra l'indifferenza generale pare aspettino diligentemente un autobus, il mare dall'altra parte della strada che non fa rumore, ma è solo una pozza enorme quasi sbiadita, un mercato nascosto a fianco della strada più trafficata dello Sri Lanka, dove occorre attendere qualche istante prima di abituarsi all'intensità di colori e odori non appena si decide di varcarne la soglia.
Elementi così strani e apparentemente scollegati non possono che appartenere ad un sogno.
Ci muoviamo a piedi, le distanze sono notevoli ma passeggiare ogni volta ci fa scoprire nuovi particolari dello strano sogno.
In realtà scopriamo che il River Inn è all'interno di mura storiche e oltre ad avere la prigione vicina, a pochi metri sorge l'accademia militare quindi ogni mattina assistiamo a marce, flessioni, presentat arm.
Le mura e l'accademia militare saranno elementi magici che segneranno momenti altrettanto magici in posti diversi di quest'isola e ci seguiranno con curiosa coincidenza.
Ma questa è la storia della mura di Matara.
Il mercato è all'interno di un grande quadrato suddiviso in quadrati più piccoli separati dal passaggio per gli avventori. Ogni commerciante ha a disposizione un quarto del quadrato ma alcuni, più abbienti, dispongono di due quarti e pochi fortunati dell'interno quadrato.
I fruttivendoli si segnalano divertiti e ad alta voce il nostro passaggio.
Qualcuno ci offre il jaggery (una specie di melassa solidificata ottenuta dal kitul, una palma che si trova per lo più in Sri Lanka e India), qualcun'altro ci offre un curry rosso e profumato in polvere ma io acquisto dei mini muffin fatti al momento sotto ai nostri occhi.
Le due abbondanti signore singalesi occupano un quarto di quadrato e sono sedute ciascuna su panchetti di legno; di fronte a loro un secchio di pastella e un fornelletto per cuocere i dolcetti.
La densa pastella marrone viene fatta scivolare nell'olio bollente dove uno stampino fatto ad anello segmentato galleggia e frigge in attesa che il dolcetto vi si solidifichi dentro. Non pare già una magia?
Sono di una bontà inaudita, riesco a malapena ad aspettare che raffreddino per gustarmeli mentre ci aggiriamo tra i quadrati colorati. All'interno della pastella si nascondono semi di finocchio e cumino che danno al dolcetto un'aroma inconfondibile.
Proseguiamo verso il venditore di pesce fresco. Occupa ben due quarti di quadrato.
Sul tavolaccio di legno imbrattato di sangue e squame, alcune razze mostrano la pancia.
Facciamo foto e io fermo l'istante in cui un grosso tonno viene affettato ma solo dopo mi accorgo che la vera foto è di quello che accade dietro al tonno: la mano distratta di chi si è fatto rapire dalla nostra presenza versa il te fuori dalla tazza in melammina. Questa foto è diversamente definita anche colpo di culo.
Passiamo poi nella sezione verdura e un ragazzo siede a lato di una piramide di fagiolini verdi e grassi che verrebbe voglia di mangiarli crudi; poco più avanti grosse bobine verdi di foglie di pepe nascondono una simpatica signora impacchettatrice di betel fresco. E poi vasche di lenticchie, ceste di lime, caschi di banane alti come le persone (e quindi più di me), pesci essiccati dall'odore intenso e forte.
Ogni scena cui assistiamo è uno scatto fotografico.
Rientriamo frastornati sotto il sole e passando dal carcere assistiamo come ogni giorno all'arrivo dei familiari in visita ai detenuti.
Vengono scaricati da un autobus che effettua solo quella corsa, attendono all'interno del primo cortile, sotto ad un albero così grande che fa ombra per tutti.
Ci sono madri con gli occhi ormai vuoti e senza sorriso, giovani mogli con il vestito buono che accompagnano figliolette vestite di tulle e raso, amici dallo sguardo arruffato che portano sigarette e poi ci sono le guardie che dirigono tutto quel traffico umano dietro a baffoni neri e colletti inamidati.
Dispiaceri o sofferenze sono affrontate con estrema dignità e silenzio ma soprattutto con tanta pazienza.
Arrivano, vengono registrati, aspettano sotto all'enorme albero e vengono chiamati a gruppi di due o tre con un ordine secco e militare.
Osservo ma non indugio, per rispetto di chi attende.
La rete di recinzione della casa ha un cancelletto che collega il cortile con la riva del fiume così decidiamo di andare a vedere da vicino.
La riva è in realtà un lembo sottilissimo e scivoloso di terra e arbusti, attraversato ogni tanto da varani curiosi.
Passa lentamente una barca a motore, così lentamente che ci guardiamo negli occhi con i tre singalesi a bordo e tu istintivamente alzi una mano come per fermarli. E loro si fermano e non solo si fermano ma tornano indietro e ci chiedono se vogliamo farci un giro.
Queste sarebbero azioni impensabili da noi: nessuno alzerebbe una mano per fermare qualcuno che non si conosce per fare un giro in barca e d'altronde nessuno si fermerebbe offrendo un giro in barca a qualcuno che non conosce. 
Ma qui è facile fare amicizia e scambiare due parole, anche in due lingue diverse.
Sono tre pescatori, due di loro sono padre e figlio e il padre ci dice con orgoglio che quello più alto che sta sistemando le reti è suo figlio e gli occhi gli brillano mentre lo dice.
Il bottino è magro: un tonno, due pescetti e una bellissima murena ancora viva.
Morde, ci avvertono.
Ci sorridono, sono stanchi e la giornata è stata magra ma hanno domande cortesi per noi che siamo in vacanza e ci possiamo permettere di spendere dieci euro per dormire.
Chiediamo se ci sono coccodrilli, visto che chiunque cui lo abbiamo chiesto ci ha risposto no.
Ci illuminiamo: certo che ci sono, entrare in acqua è molto pericoloso! Adesso fa un po' caldo perchè è pomeriggio ma alla mattina presto e alla sera qui è pieno di coccodrilli.
Siamo eccitati come se dovessimo cacciarli.
Rallentano la barca e ci mostrano zone dove in genere vengono avvistati i coccodrilli.
Il fiume è placido, poco frequentato.
Un'aquila ci osserva dall'alto e se ne va. Anche per lei il bottino dei tre poveri pescatori è troppo magro.
Ci avviciniamo ad un albero gigantesco pieno di grossi frutti neri, lucidi e polposi.
Pochi metri e ci accorgiamo con stupore che non sono frutti, sono le volpi volanti appese a testa in giù a dormire, in attesa che arrivi la notte. Incredibile visione. Ecco dove volavano stanche e morbide insieme.
Vediamo qualche volpe volante con le ali abbandonate e gli uncini a penzolare nel vuoto.
Ci allontaniamo dall'albero costeggiando la riva e lì, l'inaspettato.
Spengono il motore e ci fanno cenno di guardare verso un tronco consumato che riaffiora dall'acqua: un piccolo di coccodrillo se ne sta immobile, quasi mimetizzato.
Siamo elettrizzati e i pescatori con noi ma il loro entusiasmo è dovuto al piacere di averci reso così felici.
Rientriamo con foto incredibili e con mille emozioni.
Ci aiutano a scendere e fanno per rifiutare la lauta mancia che lasciamo al più vecchio ma tu insisti e il vecchio accetta con una stretta di mano.
Rimaniamo come sempre sorpresi dal fatto che non ci avrebbero chiesto nulla e che si sono divertiti insieme a noi.


lunedì 5 novembre 2012

Matara e il fiume

Ci avevano suggerito di non visitare Matara, città piena di smog e asfalto, afosa e poco accogliente, poche strutture ricettive e le poche in cattivo stato, nulla di veramente interessante da fare e da vedere.
Chi ci aveva suggerito questo deve aver visitato un'altra Matara, magari in un altro stato, che so..
Non so perchè l'abbiamo scelta nonostante i pareri negativi, credo forse perchè si trovava a metà strada tra Mirissa e Tangalle o forse proprio per i pareri negativi.
Ci spostiamo nuovamente in tuk tuk e ben presto spiaggia, vegetazione intensa e stradine polverose vanno diminuendo. Matara ci accoglie con gli schiamazzi e le immense strade asfaltate tipici delle grandi città.
Il caldo e il caos sono così intensi che entrambi appiccicano i vestiti alla pelle.
La nostra destinazione è il River Inn di cui abbiamo letto bene sulla guida Lonely Planet e su diversi forum di viaggiatori; la scelta era piuttosto ridotta ma l'idea di chiuderci in un albergo nel frastuono della città non ci attirava mentre dalla descrizione il River Inn, benchè un po' defilato, sorge sul fiume principale.
Le case sul fiume hanno quel fascino discreto e nobile al contempo che il movimento dell'acqua stempera o acuisce, a seconda del tipo di fiume e a seconda della stagione.
Il River Inn è una splendida e ben tenuta casa di famiglia, curiosamente attaccata alla prigione cittadina.
Gli sguardi ammiccanti e incuriositi delle guardie armate, nella loro impeccabile divisa verde, si confondono al nostro arrivo in tuk tuk ad altri mille sguardi di chi non vede molti turisti, soprattutto da queste parti.
Solo un cortile ben piantumato ci separa dal Nilwala Ganga, il fiume, e una stradina polverosa dal cancello del carcere.
Pensiamo immediatamente che ci aspetteranno giornate interessanti, altro che nulla da vedere.
Nel nostro programma dobbiamo almeno vedere qualche coccodrillo, qualche detenuto, qualche scena interessante nel cortile del carcere e aspettare qualche avventura che sicuramente ci capiterà.
Ma procediamo con ordine.
Il River Inn è una casa, una grande casa in mattoni rossi piuttosto moderna e occidentale. Il piano terra e il primo piano sono abitati dai proprietari mentre i successivi due piani sono adibiti a stanze che hanno tutte l'affaccio su una balconata ampia e attrezzata con tavolini e poltroncine e vista rigorosamente sul fiume.
Ci accoglie la proprietaria, Tania, una bella e giovane donna sulla trentina.
Tania è loquace, parla fluentemente inglese ed è muslim, mussulmana.
Ma il mio Buddha tatuato la sorprende, lo tocca, osserva tutti i miei tatuaggi con entusiasmo e con esclamazioni  di apprezzamento. Ci spiega che suo marito è buddhista, ha un tatuaggio eseguito a Singapore ma lei, che li ama così tanto, non può tatuarsi perchè è una mussulmana osservante e rispetta la sua religione. Deve percepire il nostro sguardo sorpreso e ci racconta di come spesso la realtà per noi occidentali possa essere falsata, pilotata e distorta. La sua è una unione di amore e rispetto, il fatto che abbiano due religioni differenti ha significato solo due matrimoni, tutto qui.
Ci accompagna nella nostra camera, foderata di mattoncini rossi, con letto ampio, ventilatore a soffitto, scrivania, armadio a vista e bagno con doccia, spartano ma pulitissimo.
Si scusa per il fatto che generalmente si adopera per i suoi ospiti cucinando piatti tipici invitandoli alla sua tavola ma in questo periodo le scuole sono chiuse e deve badare ai suoi bambini quindi non riesce a dedicarsi a noi come vorrebbe; se dovessimo avere bisogno è sufficiente bussare alla sua porta.
Dieci euro a notte in due per sentirci più che a casa. Ma Matara non era stata definita poco accogliente?
Sì sì, deve essere un'altra Matara.
E' sera, sul fiume, e nel gracidio intermittente una preghiera buddhista accompagna la piega morbida delle acque.
Siamo senza apparente meta: è cominciato il viaggio per davvero.
La prima notte, racchiusi da mattoni rossi con uno sguardo aperto sul fiume e sulla vegetazione, ci regala visioni.
I rumori nel buio sono luci nella nostra fervida immaginazione: squittii, battiti d'ali, tuffi e tonfi nell'acqua, fruscii tra le foglie delle palme. E chi dorme? siamo due bambini nel pieno dell'avventura.
Basta attendere seduti nel silenzio animato della natura e ogni cosa viene da sè, uno schermo 3d senza telecomando, pura visione, pura esperienza sensoriale.
La sera in Sri Lanka arriva come in tutto l'Oriente con il profumo delle noci di cocco bruciate nei piccoli bracieri a ciotola cui fa seguito l'aroma intenso dell'incenso votivo a Buddha.
Si spengono lentamente una ad una tutte le luci e i rumori dei tuk tuk e dei clacson roboanti di autobus sempre troppo affollati. 
Si ha la sensazioni che con il silenzio aumenti anche lo spazio e si estenda fino a non percepirne più i confini.
Un fruscio di fronde e due piccoli globi dorati illuminati indiscretamente dalle nostre torce ci presentano il primo ospite del nostro show: uno zibetto in perlustrazione tra le foglie della palma.
La coda lunga sembra anche morbida e soffice ed è attaccata ad un corpo di gatto dalle orecchie corte e dritte; i movimenti sono eleganti e leggeri e gli consentono di fare il trapezista tra noci di cocco e l'anima dura delle foglie. 
Si susseguono tuffi nel fiume; immaginiamo volentieri contorsioni ed evoluzioni acquatiche di coccodrilli famelici a caccia nel buio.
Un'ombra nera scorta nella zona morta dello sguardo ci mette in allarme e la sensazione di un corpo che ha spostato l'aria ci fa battere più velocemente il cuore. Attendiamo. In silenzio.
Lo sentiamo di nuovo e pronti come due piccoli esploratori illuminiamo il cielo: una enorme volpe volante attraversa l'orizzonte mostrandoci per intero un corpo peloso focato con una bizzarra testa da canide.
Se non l'avessi visto con i miei occhi sarebbe potuto essere un animale inventato, un po' come la storia dell'ornitorinco. Per secoli è stato ritenuto un animale immaginario fino a che non è stato avvistato ed è stata decretata la sua reale esistenza. 
Il sonno tarda ad arrivare, dormiamo poche ore e assistiamo all'alba e al suo gelido soffio.
Ci prepariamo un caffè caldo con la stessa vecchia resistenza comprata in India e ormai a rischio scossa, ci copriamo per bene e in silenzio osserviamo il giorno che arriva.
Per un momento penso agli antichi popoli che credevano che esistesse un immenso carro che trasportasse il sole nel cielo ad illuminare e rendere rovente una nuova giornata.
Guardo bene attraverso il fumetto caldo del caffè e non è un carro ma una flotta di volpi volanti che da Ovest solca il cielo verso Est con il passo lento dell'Oriente.
Per un attimo mi sento in Jurassik Park.
Intravvedo distintamente una volpe volante con un buco in un'ala attraverso il quale il cielo fa un ricamo inaspettato. Sono talmente tante che ti lasciano il tempo di prendere la macchina fotografica per immortalarne il volo placido. Chissà dove vanno. Non sappiamo ancora che lo scopriremo nei giorni successivi.
Ormai siamo svegli, nonostante la notte impegnativa, quindi usciamo e ci dirigiamo all'isoletta di Parewey Dewa.
In realtà è uno zuccotto di rocce che sorge poco distante dalla spiaggia, raggiungibile a piedi da un pulito e moderno ponticello pedonale e abitato solo ed esclusivamente da un tempio buddhista.
Dimentichiamo per un attimo che Matara si affaccia oltre che sul fiume anche sul mare e in effetti il mare qui è strano, è poco percepibile, si ha la sensazione che sia lì per caso.
Rientriamo presto, il fiume in questo caso è molto più attraente di questa desolata spiaggia vuota e di questo intruso che sembra essere il mare.

giovedì 1 novembre 2012

Mirissa

Lasciamo l'ultimo pezzo di cordone ombelicale con l'Italia salutando i nostri amici in partenza e trasferendoci più a sud, a Mirissa, sul mare.
Carichiamo i nostri zaini e ci mettiamo in viaggio; niente taxi, niente autobus, uno spartano e divertente tuk tuk ci porterà lentamente, rumorosamente ma con molto divertimento a destinazione.
La strada costeggia per lo più la costa così passiamo da zone deserte e battute dal vento a zone più affollate di alberghetti, case, piccoli negozi e tanta vegetazione.
Vorremmo che questi 42 kilometri si prolungassero per continuare a sentirci come ci sentiamo: due bambini, che ridono ad ogni buca che non si riesce ad evitare e che salutano le facce stranite dei singalesi che al loro passaggio si bloccano curiosi.
Mirissa è un piccolo villaggio di pescatori diviso in due dalla strada principale; da una parte gli abitanti con le scuole i negozi il fiume e la foresta, dall'altra l'agglomerato pazzo dei bungalow sulla spiaggia, pressati a tal punto che non sai dove comincia uno e finisce il successivo.
Il nostro autista sul momento non riesce a trovare il Mirissa Beach Inn, si confonde in un dedalo polveroso di piccoli sentieri dove passiamo a malapena nonostante le nostre esigue dimensioni e ogni indicazione sembra portarci prima a destra, poi a sinistra, in ogni caso non al Mirissa Beach.
Ci ributtiamo sulla trafficata strada principale e lì un baffuto singalese ridendo ci fa segno di varcare un cancello: siamo arrivati.
Non abbiamo prenotazione, abbiamo solo valutato il posto considerando posizione (sulla sabbia), tipologia di servizi offerti (pochi bungalow, cibo a richiesta) e prezzo (se non ricordo male abbiamo speso 20 euro a notte, un'esagerazione ma siamo sulla spiaggia!). Scendiamo, chiediamo, trattiamo e salutiamo il nostro autista scaricando gli zaini.
Il posto è decisamente hippy, pochi bungalow sulla spiaggia, una costruzione più defilata con camere e un porticato affacciato sul mare dove a richiesta cucinano dalla colazione alla cena senza problemi.
Il nostro bungalow è fronte mare, è angusto e umido, non propriamente pulitissimo ma non ci formalizziamo.
Il materasso (se così si può chiamare il giaciglio di gommapiuma dal colore indefinito) deve aver conosciuto tempi migliori ma anche su questo non ci formalizziamo.
Le giornate qui possono trascorrere oziose sulla spiaggia o avventurose al di là della strada. Non ci facciamo mancare nulla, mescolando un po' tutte le situazioni come è nostro costume fare.
Dalla strada di intravvede un'altura su cui sorge un tempio: ci mettiamo subito in cammino e come sempre lo facciamo alle 11, quando il sole comincia ad urlare forte.
Sulla curva della strada principale si inerpicano mille e più gradini di cemento, sovrastati da palme, rampicanti, fiori e soprattutto sole a picco.
La scalinata termina con la sommità dell'altura su cui è stato costruito il tempio di Kandavahari.
Il rumore della strada è lontano e la vista è incredibile, possiamo osservare il gioco delle onde che partono da lontano e vanno a rompersi a pochi metri dalla riva.
Un albero della bodhi di 300 anni è circondato da tempietti bianchi contenenti ciascuno una statuetta di una divinità. L'albero della bodhi è un ficus in genere centenario, per la precisione un ficus religiosa, sotto il quale Siddharta (ovvero Buddha) ricevette l'illuminazione (bodhi) e pertanto è ritenuto l'albero sacro per eccellenza.
Nel silenzio e nel deserto dello spiazzo polveroso appare improvvisamente un monaco vestito di rosso.
Si avvicina sorridendo, sembra quasi una visione.
Con un inglese misto a singalese ci da il benvenuto e ci spiega che il tempio è di recente costruzione poichè quello originario era stato distrutto dalla follia conquistatrice dei portoghesi che ha lasciato intatto solo il ficus. Lo dice con la tipica rassegnazione buddhista: è una cosa che è successa, il presente è ora.
Un rumore secco tra le sterpaglie ci fa accorrere per vedere un grosso varano di più di due metri che si mostra per poi nascondersi lesto tra i rovi.
Salutiamo il monaco e prendiamo il sentiero opposto a quello della risalita, un sentiero in alcuni punti sterrato e in discesa che si addentra nella vegetazione fitta e rumorosa di cinguettii insistenti.
Lo Sri Lanka è famoso per la varietà degli uccelli e non appena ci allontaniamo dal tempio vediamo king fisher, colibrì e strani uccellini neri con le ali di un giallo intensissimo.
Ci osservano, svolazzano di ramo in ramo come se ci seguissero.
Rientriamo al bungalow accaldati come sempre e prima di decidere di fare un bagno ci fermiamo in un piccolo market dove un anziano signore ci sorride senza i denti, mostrandoci un tunnel di gengive rosse come il fuoco. E' seduto su un panchetto di legno bassissimo e di fronte a sè ha una piramide di foglie verdi tonde, ammassate l'una sull'altra. Sta preparando il betel, qui diffusissimo e per noi immediatamente oggetto misterioso da provare assolutamente. I locali, uomini e donne, qui come in India consumano quantità incredibili di betel che ha proprietà eccitanti ma effetti fisici devastanti come la perdita progressiva di tutti i denti. Lo masticano continuamente, tenendolo ad un lato della bocca e sputando più volte saliva rossastra ai lati delle strade che inevitabilmente si macchiano. I grandi consumatori di betel si riconoscono dai denti rossi o dalla parziale o totale assenza di denti ma soprattutto dal rigonfiamento perenne di una guancia che contiene l'impasto.
Noi dobbiamo provarlo. Subito.
Ne acquistiamo una quantità che fa ridere il singalese di gusto facendogli tremolare come gelatina le gengive nude. Il betel si presenta come un pacchettino costituito da una foglia verde spessa e abbastanza dura (la foglia di pepe) che contiene pezzi di quello che scopriremo essere la noce di areca, una crema granulosa bianco rosata che scopriremo essere calce prodotta sminuzzando conchiglie e, chicca delle chicche, pezzi di tabacco per gli uomini e chiodi di garofano per le donne.
Gli chiedo timida come si fa e lui mi fa cenno di sedergli accanto e mi mostra con dolcezza e nel contempo con orgoglio l'antica pratica di masticare foglie di betel.
Si mette tutto il pacchettino in bocca, possibilmente di lato (cosa non facilissima perchè trattasi di bocconcino voluminoso) e si comincia a masticare con calma. Mi fa cenno di respirare adagio e mi fa capire che occorre calma e tranquillità, soprattutto se si è principianti.
Ma il bello viene dopo o meglio quasi subito!
La salivazione aumenta anzi no si decuplica e in pochi secondi mi sento le guance colme di saliva; nessun problema, basta aprire una fessura nella bocca stando ben attenti a non perdere il prezioso carico che riposa in un angolo dell'altra guancia e si sputa letteralmente per terra facendo attenzione a non sputarsi addosso perchè la saliva è rossa e macchia terribilmente.
Il signore ride e io rido con lui ma la mia risata dura pochissimo perchè sento arrivar un treno veloce, un rapido, un espresso che accelera e accelera: è il mio cuore. Sta accelerando talmente in fretta che per un attimo ho la sensazione che oltre ad uscirmi sparato da un orecchio, il signore seduto accanto a me possa sentirne il rumore. Sento inoltre le guance diventare rosse poi paonazze infine penso seriamente stiano andando a fuoco. Ci guardiamo e comincia lo sballo, inizio a ridere e vedendo te ridere, il signore ridere, mi sembra che tutti quelli che stanno passando, anche le persone stipate sull'autobus, ridano tutti, una grande risata ci seppellirà! Decisamente forte, decisamente sballoso, mi porti nel bungalow e ancora oggi non ricordo come ho fatto ad arrivarci. Alla sera, ad effetto ormai passato, controllo i denti: ci sono ancora!
La nostra abilità credo sia quella di trasformare tre giorni in un lungo viaggio a sè stante, incluso in un grande viaggio e per questo ogni volta indimenticabile.
Il mare mi fa paura, è agitato, arrabbiato, mai silenzioso, le onde sono alte due volte me e si rompono a pochi metri dalla riva con un fragore che azzera tutti gli altri rumori intorno.
Mi prendi per mano e mi spieghi come devo fare: non è pericoloso se si conoscono i trucchi ma soprattutto se qualcuno è lì a raccontarteli.
Mi bastano due onde affrontate con il trucco per non voler più tornare a riva. Ritorniamo di nuovo bambini e quando risaliamo sulla spiaggia abbiamo il costume pieno di sabbia e le dita di mani e piedi come prugne secche.
Arriva la sera, accendono i falò, apparecchiano sulla sabbia (cioè mettono i tavolini e le sedie di legno con le candele), attaccano the best of Bob Marley e espongono il pesce: basta scegliere, accomodarsi e aspettare che sia pronto. E nell'attesa bere una birra fredda, guardarsi negli occhi, guardare le stelle, raccontarsi e ridere.
Mirissa rimarrà per noi la luce forte, il mare impetuoso e di carattere, le notti a lume di candela a mangiare pesce e l'alba silenziosa e dolce insieme ai cani randagi che passeggiano con noi sulla spiaggia quando ancora tutto dorme.
Adesso sì che siamo in viaggio.