giovedì 12 novembre 2015

News

Sarò breve e concisa: da oggi Dietro lo Steccato sparirà da tutti gli stores per riapparire con nuova veste editoriale questa primavera, quindi abbiate pazienza!
Nuovo vestito e soprattutto importante editore!
Per gli amici di Roma segnatevi questa data: 17 novembre!




sabato 24 ottobre 2015

Ottobre: fiocchi azzurri

Ci sono, vi comunico che benché ben isolata tra faggeti, querce, noci e altri incredibili esseri provenienti dal mondo vegetale e animale, sono ancora tra voi.
Tra ore e ore di scrittura, ricerche, letture approfondite, sguardi allarmati sulle situazioni geopolitiche mondiali, camminate tra i boschi cercando di non incrociare lupi e cinghiali, raccogliendo noci e imparando finalmente ad accendere un fuoco decente, approcci e cavalcate su uno stallone che già di suo meriterebbe una storia, mi sento più dentro ad un corso di survival che altro.
Ma è proprio in questa sospensione nel tempo che arriva una notizia ormai insperata, forse nemmeno più cercata: Dietro lo Steccato ha trovato casa.
E' stato letto, valutato, apprezzato e quindi dai primi mesi del 2016 ve ne svelerò le nuove vesti.
Un editore innovativo e brillante che mi ha conquistata subito ma del quale è troppo presto per svelarvi il nome.
Oggi pensavo da dove tutto è partito, come a una piccola esplosione di luce nel cielo che piano piano è diventata una stella, nonostante i momenti di sconforto e nonostante ad un certo punto, guardando nel cielo, mi sembrava di aver perso quel lumicino brillante.
Insomma, è come fare un'ecografia ai primi mesi di gravidanza e sentire il cuoricino che fa tum tututum e scende la lacrimuccia.
La mia gestazione durerà meno dei 9 mesi e a tempo debito metterò sulla ipotetica porta di una ipotetica casa un bel fiocco azzurro.
Ma non è la sola novità.
Il secondo libro è finito.
Quando lo leggerete ancora non è dato a sapersi ma è lì, scalcia come un puledro e ha una gran voglia di farsi conoscere.
Per i curiosi posso dire che è una storia avvincente che si dipana nell'arco di più di 50 anni, fatta di emozioni, avventure pericolose e luoghi magici ma soprattutto fatta di persone speciali che vi faranno sognare.
I libri sono mondi a parte dove i personaggi che li abitano, lasciando segni e ricordi, abitano un tempo sospeso e inattaccabile, definitivo.
Non vi è nulla di più potente di una mente che è in grado di immaginare e se ci pensate, quando siete lì con il vostro libro tra le mani, immersi nella lettura, siete altrove, siete tra quelle pagine, siete quei personaggi.





lunedì 19 ottobre 2015

Avviso ai naviganti di Torino

Naviganti di Torino o giù di lì, non perdetevi questa presentazione


parliamo del
10 di novembre alle ore 18.30
presso la Libreria Arethusa
in quel di Torino
Via Giolitti 18

Chè gli scrittori, quelli veri, tra di loro si danno una mano;)

Baci spudorati a tutti voi che parteciperete!



sabato 10 ottobre 2015

Ottobre su Leggo Tenerife

Ho dimenticato di avvisarvi che è uscito, anche questo mese, un mio intervento su Leggo Tenerife.
Eccolo:


Buona lettura!
E guardiamo avanti!



giovedì 8 ottobre 2015

Monta a pelo, ovvero la storia di un Venerdì

Eccomi.
Dall'isolamento prolungato di cui godo profondi e incommensurabili benefici, oltre a scrivere, sperimento, come mio solito, curiose attività e scopro storie di rara bellezza.
Venerdì ha 21 anni ma quando ne aveva appena 10 era così bravo, così intelligente e così abile che Mario, l'uomo buono che si prendeva cura di lui, gli disse: "Se mi arrivi ai 20 ti tengo per sempre".
Lui accettò la sfida e la vinse.
Venerdì è un cavallo di razza bardigiana, un tempo abituato a scorrazzare libero per i boschi, pronto a farsi cavalcare da Mario, che più che un padrone è stato ed è tutt'ora un compagno di vita.
In ogni locanda da questo lato della vallata c'è almeno una foto in bianco e nero di Mario, capelli lunghi e torso nudo, poco più che 30enne, al galoppo con Venerdì.
Un indiano e il suo stallone.
Ma qui le leggende le puoi toccare con mano e così succede di incontrarlo, questo Mario, con il suo sguardo vivace come certe sorgenti di montagna e dal sorriso puro come quello di un bambino.
E' lui che ci racconta di questo stallone nero come la pece e delle loro avventure nel corso degli anni su e giù per le vallate, alle mostre dei cavalli, in mezzo alla neve; la sua voce è un fiume in piena, ci racconta di quando Venerdì scappava a caccia di belle cavalle e di quando lo ritrovava chiamandolo per nome e lui appariva all'improvviso con un nitrito.
Ora è proibito tenere i cavalli in libertà, devono essere chiusi nei recinti. 
Mario non li conta più i recinti che Venerdì ha distrutto o saltato, ora sta cercando di farne uno resistente con pali conficcati in profondità e alto quel tanto da impedirgli di scavalcarlo.
Per il momento, ma ormai è più di un anno, Venerdì è chiuso in un doppio box che ha già sfondato una volta e cui ha già divelto le porte in diverse occasioni.
"E' uno spirito libero, è buono, ma quando sente una cavalla l'istinto è quello!" lo giustifica Mario.
"Lo volete vedere?"
Scopriamo così che la "detenzione " di Venerdì è aggravata dall'incapacità di Mario di liberarlo.
"Ormai sono tutto rotto, non riesco più a tenerlo e lui, quando esce, fa il matto! L'ultima volta son state due costole, per farlo uscire devo aspettare il maniscalco. Gli fa le unghie, lo fa sgroppare un po' e poi di nuovo in box."
Da vicino Venerdì incute soggezione, è nervoso, nitrisce, picchia con una zampa la porta che scricchiola, scalcia il muretto di cemento poi butta la testa, enorme, fuori dal box per baciare Mario.
"Eh vedi, è buono, io gli porto le pesche, le mele, il pane, ma di più non posso fare".
Così Venerdì è diventato un appuntamento quotidiano, arriviamo e lui ci riconosce, diventa sempre meno nervoso, si fa accarezzare il collo forte e muscoloso, mangia un po' di avena con le mele, beve 4 secchi di acqua fresca fino al prossimo "amico" che lo andrà a trovare.
Sono molte le persone che lo frequentano, qualcuno porta i figli, qualcuno va da solo e ci parla, come Mario e come noi.
Oggi avevo delle pere e qualche pezzo di pane secco, smontiamo dalla macchina e vediamo che non è da solo, un ragazzo gli sta parlando, da vicino.
Qui in montagna ci si saluta tutti, ci si guarda un po' di sottecchi, siamo stranieri, ma è una condizione cui siamo abituati. Ci sorride quando vede le pere.
"Venite spesso? non vi ho mai visti"
Parliamo un po', del più e del meno ma soprattutto di Venerdì.
"Io Venerdì lo conosco da 15 anni, è un...ma sì dai, è...è un amico, come Mario. Io addestravo cavalli, Venerdì è stato il migliore di sempre, ma ora non ho mai tempo, passo tutti i giorni ma di corsa, per salutarlo"
Ma oggi è diverso.
Oggi io ho sperato che lui avesse dieci minuti in più o che si dimenticasse dell'orologio, solo per una volta.
Stiamo per salutarci, si ferma nello sterrato, scuote la testa, torna indietro.
"Ma sì, sai cosa facciamo? io oggi lo tiro fuori, tanto Mario mica si arrabbia"
Venerdì deve aver capito, ci fissa in silenzio e rimane tranquillo.
Le porte sono bloccate da strati e strati di fieno pressato per evitare che le distrugga così il ragazzo scavalca, prende un badile e di gran lena comincia a liberare il passaggio poi mette i finimenti alla testa di Venerdì e ci avvisa di spostarci.
Ci aspettiamo che si alzi, che sgroppi, che fugga nel bosco ma lui, appena uscito, infila la testa nell'erba lasciandoci senza parole.
E' stato come se volesse risentire gli odori e toccare di nuovo la vita.
Tenuto con una corda il ragazzo comincia a farlo trottare in tondo e Venerdì nitrisce, divertito.
Non c'è nulla di più emozionante di rivedere qualcuno riassaporare anche solo per un attimo la libertà.
Il ragazzo ci guarda, sorride e se ne esce con un "chi vuole salire?"
Io sento un brivido che corre dalla testa e si ferma lì, alle ginocchia, facendomele tremare un poco.
"Salire? ma...io non so...e la sella?"
Il ragazzo ride, mi fa cenno di avvicinarmi.
"Ma che sella, Venerdì si cavalca a pelo, come gli indiani!"
Non sono una che si ferma di fronte a questi trascurabili dettagli, mi avvicino con il cuore a mille, appoggio un piede sul ginocchio di Gian, afferro la criniera di Venerdì, faccio un bel respiro e salgo.
Venerdì non si muove di un centimetro, si lascia accarezzare, io gli parlo dolcemente e ci facciamo un giro, tranquillo, quasi a condividere quel momento magico sotto al cielo più blu che ho mai visto.
Sento il suo respiro, il battito del suo cuore, i movimenti dei muscoli.
Quando lo facciamo rientrare nel box non protesta, è felice, beve il suo secchio d'acqua e tra la criniera folta vedo quello sguardo profondo, riconoscente, grato.
Ma siamo in due ad avere quello sguardo.
La vita, credo, vada cavalcata a pelo ed è l'unico modo per abbattere anche le barriere più invalicabili.


Quest'inverno Venerdì avrà un ampio recinto dove muoversi e trottare.
Io e mio marito contribuiremo con il nostro aiuto (mani che lavorano).



lunedì 7 settembre 2015

Aggiornamenti da luoghi ameni

Gli isolamenti, quando non sono forzosi, hanno un che di privilegiato con cui ci si bea 24 ore al giorno o giù di lì.
Non pensatemi china sulle sudate carte alla Leopardi né tantomeno dedita a scolarmi bottiglie di whisky nelle ore notturne davanti a pagine di word.
Le mie giornate, che cominciano comunque all’alba solo per il gusto di vederla colorare quella “v” che sta dietro casa tra le due montagne, si aprono con caffè che profumano un’aia ancora assonnata e fette di pane e marmellata casalinga, mentre sotto agli occhi scorrono le notizie del mondo.
Sugli alberi di noci una masnada di scoiattoli comincia la corsa mattutina ed è tutto un fremere di foglie e code, mentre i gusci vuoti rotolano a terra in un rumore secco che mette in allerta un gatto fuori misura.
L’aria è diventata fredda, aspetto che il sole arrivi nel prato per scendere con il mio tappetino e fare un po’ di yoga, accompagnata non sempre ma volentieri dal buffo cane che abita nell’unica casa di fianco.
Arriva, mi fissa sconcertato, si stira sulle zampe (del resto esiste una posizione che si chiama volgarmente cane che guarda in giù), tenta un approccio invadendo il tappetino e la mia faccia, poi se ne va a caccia di uccelli.
La parte più bella è la pseudo meditazione a (semi) fiore di loto con la faccia rivolta a quella “v” da cui il sole comincia a scaldare tutto.
Sì perché lì cominciano i grovigli e anziché liberare la mente come mi propongo ogni volta, succede che da un personaggio del libro io passi al nuovo argomento per l’articolo di Leggo Tenerife, non senza farmi domande per Luca Faccio, non senza programmare una passeggiata nel bosco in cerca di porcini e tassi fino a che mi viene in mente che potrei cuocere le lenticchie intanto che faccio una ricerca qualsiasi, una delle mille mila ricerche in cui mi vado a invischiare.
A proposito: lo sapevate che i tassi, oltre a essere di una bellezza sorprendente, scavano gallerie talmente organizzate da dedicare una stanza alla latrina e una alla camera da letto?
In particolare dedicano molta cura alla loro alcova, costruendo un giaciglio sollevato da terra con ramoscelli intrecciati e rivestito da muschio. Ché gli spifferi qui in inverno sono potenti!
Insomma, “meditazione” terminata scrivo.
A volte ho l’impressione di avere al posto della mente una mongolfiera che devo tenere a bada per evitare che voli via. Sì, mi distraggo, sono capace di farlo anche dentro una stanza isolata, con porta e finestre chiuse e nulla alle pareti, tranne il canovaccio del libro.
Quando è troppo mi alzo e vado nel bosco.
Non esiste nulla di più corroborante e di rilassante.
Ho almeno tre sentieri che faccio abitualmente, a seconda dell’umore.
In particolare ce n’è uno così silenzioso e protetto dove perdo la nozione del tempo.
Ad un certo punto in corrispondenza di una fonte naturale che sgorga dalla montagna, c’è una panchina o meglio un’asse di legno appoggiata su poche pietre.
Mi siedo e aspetto, sentendomi appena un po’ uno dei personaggi di Aspettando Godot, e lì, finalmente, libero la mente.
Ve lo dico: ho messo la parola fine.
No, non che sia finito finito, ma ho messo la parola fine.
Devo lavorare agli eventi, quelli centrali, ma soprattutto devo cominciare a distaccarmi e leggerlo da estranea che lo legge per la prima volta.
Piacerà? E qui, questo salto temporale, si capirà? mentre qui, rischierò di sollevare un polverone? 
Di fianco a me c’è sempre Dietro lo Steccato, lo guardo, gli dico: eh fortunello!
Poi vorrei già lavorare al terzo, perché un terzo esiste già, da anni.
Ma cos’è questa fretta?
Mi alzo dalla panchina, vado verso il rumore del fiume, via via diventa più intenso quasi da sentirlo a portata di mano ma invece è laggiù, sotto ad un salto di non so quanto metri, proprio dove comincia la frana.
Non vedo nemmeno l’acqua, vedo a malapena il letto che la contiene ma ne sento la voce potente.
Un po’ come per il nuovo libro.

E’ lì, ma ancora non lo vedo, non lo tocco.






mercoledì 2 settembre 2015

domenica 30 agosto 2015

A piedi nudi nel silenzio

Il tempo, quando non sono in movimento, è come un carretto da trascinare o da rincorrere, difficilmente da cavalcare.
A meno che non ci si ritrovi in una non dimensione, in una sorta di perfetto isolamento, un parapetto invisibile a tutti ma dal quale osservare e riflettere.
Ecco, solo in quel caso il tempo subisce dilatazioni e talvolta si contrae ma in una formula sconosciuta, che stordisce e rapisce insieme.
Sono in isolamento.
No, non carcerario né tantomeno sanitario.
Anzi, lo dirò meglio: sono in silenzio stampa.
Questa nuova condizione di esule in terra sconosciuta dove parlano una lingua ancor più sconosciuta, mi (ri)porta magicamente su quel parapetto, dove i fogli sotto alle mie mani si riempiono senza che io a volte me ne renda conto.
E meno male! aggiungo io.
Questo secondo libro borbotta, si addormenta, si sveglia di notte urlando o parlando ininterrottamente, mi spaventa, mi fa piangere e mettere in imbarazzo, mi assilla costantemente come il grillo parlante in Pinocchio.
E mettiamoci una parola fine che diamine!
Fosse facile, con tutto quello che succede, con tutti gli intrecci e i casini in cui si ficcano questi nuovi personaggi, ché poi fanno i chilometri e hai voglia a rincorrerli tutti, senza perderne di vista nemmeno uno.
A volte ho la tentazione di chiamarne qualcuno al telefono per chiedergli: scusa, ma dove sei andato? e soprattutto, cos’hai combinato? Ma senti una cosa, raccontami un po’ di questo viaggio…
e insomma, follie di questo tipo.
Ma poi non so chi chiamare, dovrei chiamare me stessa, quella me che si siede davanti al nulla e si fa passare questo nuovo davanti agli occhi scordandosi a volte di prendere appunti.
Insomma, tutte queste cialtronerie per dirvi che sono in pausa creativa, profonda, preoccupante a tratti.
Vivo di ricordi, anche quelli non miei, ma che sono comunque miei per la proprietà transitiva che ho stabilito con i miei personaggi.
Vago a piedi macinando chilometri, a volte con il brivido della paura di perdermi e di non riuscire più a tornare a casa.
Mi godo il silenzio di angoli nascosti, dove quasi il mio respiro fa troppo rumore, e mi siedo dove capita senza preoccuparmi di sporcarmi i vestiti.
Sbircio le notizie del mondo, trovando analogie preoccupanti, campanelli di allarme fin troppo evidenti da essere veri e tutto mi appare come un ronzio furioso, dove ogni tanto qualcuno alza la voce e tutti si girano a guardarlo per poi riprendere quel ronzio.

Come se nulla fosse.



giovedì 20 agosto 2015

(S)punti di vista

Il caldo ha fatto il suo giro di boa? siamo già pronti a rimpiangere il solleone in previsione di lunghe giornate piovose? o stiamo ancora lamentandoci di afa e zanzare?
Prendetevi cinque minuti, che siate sotto alle pale di un ventilatore o dentro al primo golfino della stagione.
Ieri sul blog del Dott.Luca Faccio è uscita una mia riflessione, la trovate qui:


Grazie come sempre a Luca e alla prossima!


sabato 1 agosto 2015

Lune d'Agosto

Una luna incredibilmente grande e chiamata "blu" ci traghetta nel mese di agosto.
Superata la boa di luglio è un po' come se agosto ci dicesse che le vacanze vanno scemando, settembre è alle porte, l'autunno già si sente nell'aria con le sue piogge e poi si sa, Natale è già lì che preme, del resto lo si prepara per tempo, se no che Natale sarebbe?
Uh che ansia, far volare il tempo più di quanto già non voli.
Insomma, agosto è agosto, vogliamo viverlo senza pensare ad altro?
Sono anni che non lo passo in Italia e quindi aveva perso un po' del suo significato.
In Sri Lanka, nel sud, è il mese delle piogge, il mare che si mangia la spiaggia, la tranquillità delle giornate senza le carovane dei turisti, solo qualche surfista ben informato sfida le onde nell'incertezza di cieli che finiscono sempre per regalare intensi blu nonostante le previsioni.
In Thailandia agosto è un mese caldo dove gli acquazzoni regalano tramonti inaspettati e in Malaysia è il sole a intervallare l'enorme quantità di pioggia che scende spesso con violenza.
In tutti i casi, agosto in Oriente perde il piglio imperioso che assume qui, nella Bassa Padana.
E se una volta le città si svuotavano lasciando le strade in balìa di autobus vuoti e ombre solitarie, ora permane un costante brulichio senza fine che, diciamolo, ha tolto un poco di magia.
Posso dirlo?
Non ci sono più gli agosto di una volta...
Così che quando per una volta uno torna in Patria e vorrebbe almeno ritrovare le sue abitudini dimenticate e le tradizioni radicate, si trova davvero spaesato e a disagio.
Non che avessi grandi aspettative, intendiamoci, anche perchè non me ne sono andata decenni fa e molte cose le avevo già subodorate.
Però...rimango a bocca asciutta, prigioniera di quattro mura, in attesa di ripartire (tanto la valigia è sempre perennemente pronta) e priva di qualsiasi luogo fisico di riferimento che mi possa donare conforto.
Vogliamo dirla tutta?
Ce n'era uno, era Piazza Duomo, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Ora dovrei fare lo slalom tra tubi di ferro, transenne e poltroncine di plastica.
Io sono per l'innovazione, il progresso, il futuro.
Ma caspita un briciolo di rispetto e di lungimiranza non guasterebbero.
Non entro nella polemica ma io, come credo molti altri, mi sono trovata orfana di un posto speciale.
Il lato positivo di questo momentaneo limbo è che presto potrò concretamente parlare del nuovo libro e magari, perchè no, presentarvelo, dirvi proprio: ehi, eccolo qui, Dietro lo Steccato vi era tanto piaciuto, provate anche questo, secondo me lo amerete tanto quanto o più del primo...
Come ho detto a voi che eravate presenti alla presentazione ufficiale da Fiaccadori, chissà, magari in una notte metto la parola fine, magari ci vorrà ancora tempo.
Oggi la fine la vedo vicina.
Insomma, riuscire a farvelo trovare sotto l'albero non sarebbe male, vero?
Ecco, sto parlando di Natale alle porte, sono già stata contagiata dalla sindrome perfettamente inutile di far volare il tempo più veloce, ma forse è solo perchè velocemente vorrei trovarmi in una foresta:)
Buon agosto a tutti voi, non pensate a settembre, tanto meno a Natale, e sì, dico anche a voi, che state già parlando del 2016.
Siamo ad Agosto.
Fine.
Contiamo i giorni, uno per uno, tutti in fila, senza saltarne nessuno.
Io ci provo.
ciao


martedì 28 luglio 2015

Oggi nessuna foto

Alla fine ho lasciato perdere.
Non me la sono più portata la macchina fotografica nel bosco.
Non è possibile riprendere i suoni o gli odori o certe sensazioni di allerta di quanto senti qualcosa muoversi nel buio di un cespuglio, ma non solo.
Se ti ci affanni il risultato è talmente deludente da farti dubitare di avere davvero visto certi dettagli ora persi.
Oggi sono entrata nel bosco, ho percorso la strada principale, ho affiancato la piccola chiesa romanica che profuma di fiori e ho preso la strada sterrata che per pochi metri corre parallela alla principale prima di deviare tutto a sinistra, proprio in direzione del Corno Grande.
E’ lì che ho rallentato il passo fino a fermarmi e poi ho aspettato, immobile, in silenzio, rendendo il più possibile silenzioso anche il mio respiro.
Mi sono finta albero, ho lasciato che il vento passasse tra i miei capelli scompigliandoli senza risistemarli, ho annusato l’aria che sapeva di corteccia e terra, ho percepito la temperatura abbassarsi di qualche grado, ho osservato le foglie diventare per pochi minuti lamine d’oro, nell’istante in cui il sole, abbassandosi, le ha baciate appena, facendosi largo tra i rami e i cespugli.
Ho penetrato un concerto di foglie e rami intenti a seguire un immaginario spartito in cui ognuno suonava al proprio ritmo e ho sobbalzato ad ogni brusco crepitio di foglie secche, segnale del passaggio di una curiosa ghiandaia o di chissà quale animale intento ad osservarmi.
E quando alcuni rami si sono abbassati verso di me dopo una folata di vento più forte, ne ho avvertito l’abbraccio suadente, ho colto la compenetrazione misteriosa dimenticando di essere un’ospite, desiderando moltiplicare quella sensazione un’altra volta ancora.
In distanza un muggito, il rombo di un motore, forse un trattore, alcune voci, tutto così lontano e tutto improvvisamente così estraneo.
Ogni piccola cosa nel bosco fa rumore.
Ho chiuso gli occhi, non senza un primitivo timore.
Mi è sembrato di sentire la marcia delle formiche davanti ai miei piedi, l’avanzare ballerino di una farfalla tra i rami, il fruscio dei rami più alti e più esposti al vento e il cigolare di quelli vicini a terra, la corsa nervosa di una lucertola tra foglie e terra.
La mia immobile osservazione fa parlare il bosco e quando, sebbene lentamente, accenno a un movimento, uno a uno, come interruttori, i rumori si spengono, lasciandomi orfana di un incanto.
Non ci sono foto per questo articolo.
Vi avevo avvisato.

lunedì 27 luglio 2015

Invito a teatro

Prima che L'Aquila fosse L'Aquila, in un'epoca che possiamo indicare attorno al 300 a.C., qui sorgeva una città sabina chiamata Amiternum, dal nome del fiume che l'attraversava Aterno.
Estesa su una vasta superficie, Amiternum fu per molti secoli una cittadina popolata per lo più da importanti famiglie romane che qui si erano insediate costituendo un distaccamento di lusso della capitale Roma.
Il decadimento venne in seguito, con l'avanzata del Medioevo, l'accorpamento alla diocesi di Rieti e la successiva perdita di potere.
Di Amiternum si conservano ancora oggi importanti reperti archeologici, alcuni di essi accessibili grazie alle opere di rivalutazione e ristrutturazione effettuate nel corso degli ultimi anni e uno di questi è l'Anfiteatro.
Facilmente raggiungibile perchè situato non senza pesanti polemiche su una strada di grande traffico (è così che noi lo abbiamo scoperto per caso), l'Anfiteatro datato I secolo d.C. è stato riportato alla luce nel 1880 e recentemente è stato rinchiuso in un complesso dedicato all'archeologo e fotografo inglese Thomas Ashby che in maniera capillare e rigorosa frequentò questi luoghi agli inizi del 900.
La struttura è ellittica così che fotografandolo è possibile dare un'idea piuttosto precisa del fascino particolare che suscita.
Si può vedere ciò che resta delle arcate che correvano su due file una sopra all'altra lungo tutta l'ellissi, rendendo l'anfiteatro in grado di contenere fino a seimila persone.
Il prato verdissimo che spicca tra il rosso delle pietre e il blu dei cieli aquilani addolcisce quello che in fin dei conti è un rudere ripulito che ricorda molto una anziana dentatura mancante di parecchi denti.
Eppure quando il sole si abbassa tra quelle feritoie e si infila negli interstizi dei muri grezzi, il rumore della strada magicamente sparisce e tu, che osservi, rimani a custodire un silenzio che non ci appartiene più ma che, inspiegabilmente in questo posto, vince la modernità cacofonica cui siamo abituati.









sabato 25 luglio 2015

Ricami tra le rocce

E' sufficiente salire un po', fermarsi al primo spiazzo utile che consente una bella e aperta visuale, per notare come le creste montagnose che interrompono le grandi vallate, siano ricamate da paesini e roccaforti di bellezza antica.
Intessuti tra boschi e pascoli, le case, i palazzotti, le chiese e i campanili alterano il naturale profilo arricchendolo di linee geometriche più squadrate, compensando così le rotondità delle cime.
Molti di questi borghi o paesi regalano il meglio in distanza, osservandoli come sfidano la gravità affacciandosi spavaldi su dirupi e discese improvvise.
Il punto di vista infatti cambia notevolmente quando ci si abbandona a quegli angusti spazi, fatti di straducole che sguisciano tra i muri e le volte, facendoci sentire in un attimo dentro ad un guscio esclusivo.
Prendiamo ad esempio la bella Rocca di Calascio, raggiungibile dalla statale 17 e deviando per Santo Stefano di Sessanio.
La si scorge dopo pochi tornanti, come avvolta dalle nuvole rarefatte, quasi che si potesse sentirne la frescura del vento che si insinua tra le feritoie della torre di avvistamento dell'anno 1000.
La Rocca di Calascio è diventata celebre perchè è qui che sono state girate le scene più suggestive del film Lady Hawk con Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer (per farvi un'idea cliccate QUI )
La strada prosegue praticamente fino alla Rocca, diventando nell'ultimo tratto un ottima prova per chi vuole sconfiggere la paura dell'altitudine: la stretta linea di asfalto bucherellato è infatti priva di barriere di sicurezza.
Noi lasciamo la macchina due tornanti sotto per percorrere il ripido sentiero che taglia la vetta tra alberi di ciliegie e noccioli, regalando in alcuni punti la vista sul Gran Sasso e sui monti della Majella.
Due punti di ristoro, di cui uno con possibilità di pernottamento, ci accolgono insieme all'aria un po' più fresca.
Scopriamo che qualcuno abita qui regolarmente, tra case completamente senza tetto diventate serre a cielo aperto e rovine in corso di ristrutturazione.
Il clima è gioviale, tranquillo, riposante, la vista è mozzafiato, anche nella terribile ora più calda che ci ha visti affrontare la camminata con il sole praticamente allo zenit sopra le nostre teste.
Ci fermiamo nella Taberna, su una panca di legno sotto ad un provvidenziale ombrellone.
Un cane nero di taglia piccola e pancia larga ci da il benvenuto, parcheggiandosi sotto ai profumi del mio panino alla porchetta abruzzese con tutta la mia sincera comprensione.
Il cane, di nome Zorra (fosse stato maschio sarebbe stato Zorro), reclama assaggi di qualcosa che vede sfilare davanti ai propri occhi e al proprio tartufo tutti i giorni.
Gli osti sono all'interno di una bottega scavata letteralmente nella roccia, dove una scaffalatura in legno ospita il riposo di invitanti caciottine di pecora.
Pochi passi ancora tra case abitate e ruderi pericolanti per respirare l'aria buona e godere della vista mozzafiato, poi si scende anche se la tentazione di rimanere a dormire in questo maniero arroccato è molto forte.
Chissà quante stelle si possono vedere da quassù, vicini come siamo al cielo...

dalla strada che lentamente comincia a salire si scorge
la sagoma regolare della rocca



residuo delle antiche mura


il Gran Sasso 

case senza tetto

piccoli ingressi (Hobbit??)

guardiani attenti

parapetti 

il riposo della Caciotta















sabato 11 luglio 2015

Per una presa di coscienza

Siamo ad un nuovo appuntamento sul blog di Luca Faccio, oggi parliamo di segnali da non trascurare e di occhi da tenere aperti.
Potete leggerlo qui:

martedì 7 luglio 2015

Ricordi in piazza

Le piazze aquilane mi riportano indietro in un tempo sospeso tra i miei ricordi e tra quello che si legge sui libri di scuola, una dimensione tanto viva quanto lontana che stringe corde profonde e lascia un po' l'amaro in bocca.
Molte cose qui sono rimaste immutate, il senso del tempo che è passato è dato dalle persone che si danno il cambio in una corsa frenetica che è la vita, figli di figli diventati ormai nonni, qualche macchina che prima non c'era, cartelli moderni che stridono tra i muri in sasso e piante secolari, piccoli particolari che riempiono luoghi solo un po' consumati.
Tempo addietro avevo partecipato con un breve racconto ad un concorso letterario che aveva per tema la piazza.
Oggi più che mai quel racconto mi torna in mente e ve lo propongo perchè riassume perfettamente quello che provo camminando per questi luoghi aquilani.


La Piazza
di Ilaria Vitali
“Dove vai?”
“in piazza!”
“alle sette si cena, non fare tardi…”
Era il 1982 ma sembra ieri, con i miei dodici anni che spingevano forti nelle gambe per correre fuori, incontrarsi con le amiche e stare ore sedute sulle panchine in pietra a raccontarsi sogni, desideri e il futuro, qualcosa di indefinito e maledettamente lontano.
Io portavo i miei ordinati fogli battuti con la Olivetti regalata dal nonno, frasi che si rincorrevano ingenue e che raccontavano di avventure e romanticherie.
Ognuna di noi aveva il suo ruolo, chi di narratore e chi di personaggio e il mondo ci sembrava ancora così grandioso da non scalfire minimamente quei sogni.
L’appuntamento più atteso era ad agosto, il mese del sole a picco sul giardino che si riempiva di crepe e delle scorribande in bicicletta per i campi ciarlieri di grilli e cicale, ma soprattutto il mese della fiera, la sagra annuale di paese che apriva le porte a quella che allora mi sembrava la trasgressione.
Si poteva uscire la sera, con l’occhio sulle lancette che correvano sempre troppo veloci e si doveva rientrare in tempo per non essere puniti.
L’aria profumava di stelle e zucchero filato, i baracconi occupavano l’intera piazza con musica, colori e gente di ogni età.
A dodici anni non sai ancora nulla della vita, la affronti con il batticuore di un inesperto pioniere nella foresta e ogni sguardo, ogni sorriso, ogni timido saluto, mi avrebbero fatto riempire cento pagine ancora di racconti fantasiosi da leggere con le amiche.
Non lo sapevamo ancora ma quell’innocenza che ci avvolgeva morbida e sfacciata sarebbe durata poco e non sarebbe mai più tornata.
Quello che ci affascinava di un piccolo paese della bassa padana finì per diventare una prigione troppo stretta, così la piazza diventò molto presto un porto da cui partire.
Appuntamento alla seconda panchina, in attesa di chi aveva già patente e macchina e poi via, verso la città, superando le distese di campi coltivati, gli argini sonnacchiosi e i paesi sospesi in un tempo speciale.
Non so dire esattamente quando finì quell’innocenza ma credo che una mattina mi svegliai ignorando completamente la piazza, non sentendo più il bisogno di correre fuori per ritrovare quella panchina e tutto il carosello che la circondava.
Non esistevano centri commerciali, le rezdore marciavano esperte su biciclette cariche di borse della spesa e spesso era impossibile entrare dal bottegaio per comprarsi una bibita da tanto era affollato.
Il profumo del pane appena sfornato avvolgeva la piazza di mattina presto, quando già era un brulicare di movimento.
Il cuore del paese del resto stava tutto lì: la farmacia, il bottegaio, il paltino, l’ambulatorio del medico, la scuola elementare, la banca, l’ufficio postale, il bar.
Oltre la piazza un dedalo di viuzze che attraversavano come nastri di asfalto la campagna, strade piccole, con curve improvvise e dossi, strade che si perdevano nella nebbia di certe sere autunnali quando si guardava fuori dalla finestra e non si vedeva il cancello.
I mesi trascorrevano imperturbabili ma la velocità era quella di chi, il tempo, lo accompagnava per mano, vivendolo intensamente senza sprecarne un solo minuto.
E quel grande palcoscenico che era la piazza restava a guardare con i suoi platani gloriosi dai quali lampioni rassicuranti facevano pensare che in fondo, se si era lì, tutto andava bene.
Quando ci fu l’alluvione la piazza divenne ricovero di mucche, contadini, volontari che distribuivano tè caldo e biscotti per chi aveva perso tutto o quasi, gli stessi volontari che l’anno successivo si adoperarono per preparare, in quella stessa piazza, un ricovero per la notte dopo il forte terremoto che fece tremare muri e cuori in pochi interminabili secondi.
E’ tanto che manco, so di per certo che i platani sono ancora lì, a bisbigliare nella notte tra di loro e che forse avranno cambiato le panchine, quegli enormi savoiardi bianchi che allora nessuno, bei tempi, si azzardava a imbrattare, ma se chiudo gli occhi torno a quei giorni per scoprire che nulla è cambiato.
Il nonno passerebbe in bicicletta salutandomi ancora con le sue mani grandi da muratore, chiamandomi “briscola” e facendo finta di essere passato per caso e non per controllare.
“hai le ginocchia tonde di tuo padre” mi diceva, quasi a denunciare una sottile gelosia.
Poi se ne andrebbe, proseguendo la pedalata su una bicicletta che sotto la sua possente mole sembrava piccolissima.
Lassù, sulla cima, le foglie dei platani si muoverebbero appena con le cicale a frinire instancabili quanto le chiacchiere delle comari davanti al bottegaio.
Passerebbe la moglie del banchiere, ondeggiando sui tacchi e scuotendo appena i ricci freschi di permanente, lasciando una scia di profumo dolce e raffinato che farebbe sgranare gli occhi alle comari, pronte a bisbigliare pettegolezzi irriverenti.
“ghiacciolo?” direbbe una di noi.
Attraverseremmo la strada a piedi, lasciando la bicicletta appoggiata alla panchina, ché tanto nessuno pensa a rubartela, e entreremmo timide e sospettose nel bar.
Nuvole di fumo, zaffate di vino e risate sgangherate. Gianni Togni urlerebbe dal juke box e noi vorremmo essere già grandi ma ci limiteremmo ad aprire il pozzetto della Tanara, respirando l’odore di ghiaccio e cartone per cercare il ghiacciolo al limone, quello che non trovi mai e devi affondare la mano per cercarlo.
Poche lire sul bancone troppo alto che puzza di sigaro e caffè, il sorriso del barista che ci invidia quell’innocenza garbata e poi di nuovo sulle panchine, con il ghiacciolo che sgocciola sul braccio e si deve fare presto, così presto che il troppo freddo ci fa male alla testa.
Arriverebbe la bella del paese, quella che tutti noi invidiamo, di qualche anno più grande.
Non ci degnerebbe di uno sguardo, resteremmo mute ad osservare rapite come si muove, come si veste, come si pettina e come ci sembra innegabilmente perfetta.
Avrebbe il broncio, entrerebbe nella cabina gialla della Sip e la vedremmo sorridere alzando gli occhi al cielo.
“Una telefonata d’amore” sospireremmo in coro, sentendoci per un attimo prigioniere dei nostri pochi anni, non sapendo ancora che un giorno vorremo tornare con la memoria a quella panchina, a quella piazza, senza forse sapere più nulla l’una dell’altra, riempiendoci gli occhi di mestizia e nostalgia a pensarci così, bambine spensierate.
Ora di tornare a casa, proprio mentre la piazza si riempie dei grandi, tornati stanchi dal lavoro per vedersi e per vedere le ragazze, che escono a gruppi di tre o quattro, ciarlando argentine, facendo un po’ le smorfiose, lanciando occhiate languide.
“appena divento grande….” e correremmo per non fare tardi perché questa è l’età che il tempo con le amiche non è mai abbastanza.
Partirebbe la sigla di Happy Days, Topolino da sfogliare vicino al piatto e nel piatto verdure fresche in pinzimonio.
Poi la vita accelera, ma questo ancora non avremmo potuto saperlo.
Riapro gli occhi, il sapore degli anni andati rimane annodato nella pancia.
Sono schiava della tecnologia, di oggetti di cui allora si ignorava ancora l’esistenza ma mi piace pensare che un giorno, non troppo lontano, si possa passeggiare e sedersi di nuovo in una piazza dove non esiste segnale, una bolla a-tecnologica.
Si ricomincerebbe a parlare, le mani servirebbero per stringere altre mani o un ghiacciolo che si scioglie troppo velocemente.
Impareremmo ciò che abbiamo dimenticato, riprenderemmo dove ci eravamo lasciate ad ingannare il tempo raccontandoci storie e siccome saremmo vecchie, ne avremmo così tante che il tempo non ci basterebbe, come allora.
I platani dall’alto riprenderebbero a bisbigliarsi segreti quando scende la notte e noi, invidiandoli appena, andremmo a dormire salutandoli.
La vita è circolare, come questa piazza senza tempo, si compie un giro in tondo, ci si allontana dal punto di partenza, per poi ritrovarlo quando la fine è vicina e pensando con sollievo e stupore: si torna a casa, si torna a essere vento tra le fronde dei platani.

mercoledì 1 luglio 2015

Il bucato del prete

Sono giorni frenetici, di nuovi progetti e nuove avventure.
I luoghi qui aiutano e non poco.
Le mattine iniziano con la luce del sole che va a rischiarare le cime delle montagne e il canto degli uccellini che si svegliano rincorrendosi a volo basso sui prati.
Ovunque volgi lo sguardo vedi solo vegetazione, piccoli gioielli di mattoni e pietre abbarbicati su alture e cieli sconfinati. Poi, laggiù, imperioso, appena sporcato di neve, il Gran Sasso a dominare tutta la valle.
La zona abruzzese dell'Aquila riserva sorprese ad ogni curva, ad ogni stretto tornante, ad ogni ingresso a volte difficoltoso tra le mura di case che paiono toccarsi.
La gente è cordiale, gioiosa, riservata quanto basta, genuina.
Le distanze sono dilatate, ogni spostamento richiede salite, discese, percorsi tortuosi che però rivelano sempre scorci indimenticabili, che annullano la fatica di quegli spostamenti.
Si cammina, tanto.
Si riscopre la pazienza dello spostarsi su lunghe distanze con le proprie gambe e la propria resistenza, compensata dalle delizie di una cucina succulenta e generosa.
Questo posto è una naturale ricarica, a dispetto della fatica che ogni giorno si prova.
Quando arriva l'imbrunire l'aria si rinfresca, diventa frizzante, solo le cime delle montagne godono ancora del sole che pare non volersene andare mai più.
Dalla finestra vediamo in lontananza un'altura solitaria e su quell'altura, altrettanto solitaria, la sagoma di una chiesa medioevale.
E' San Michele, raggiungibile solo a piedi da Lucoli Alto, lasciando la macchina tra le casette di pietra e sassi dove da alcune porte escono galline pettorute e galli minacciosi.
Dopo un cammino piuttosto ripido su uno stretto sentiero abbracciato da alberi di nocciolo e amarene (buonissime), si arriva sulla cima dove si gode di una vista mozzafiato.
La vista è sorprendente ma purtroppo la chiesa è chiusa quindi dobbiamo "accontentarci" del panorama.
Di notte S.Michele diventa un faro rassicurante, illuminato da luci calde che lo fanno sembrare una stella scesa sul monte. 
Qualche chilometro più a valle, lasciando la strada principale per una strettoia nel bosco che si arrampica decisa, troviamo la Beata Cristina, una chiesa del 500 ancora chiusa per danni strutturali importanti.
Impossibile non notare infatti le crepe che attraversano la facciata e i decori alle finestre.
Da una finestra sul retro, nel complesso annesso alla chiesa, gli abiti del parroco stesi ad asciugare ci fanno sorridere: ricordano molto i film di Don Camillo e Peppone, dove la vita parrocchiale era dipinta con una sacralità sdrammatizzata.
Come dire: anche i preti fanno il bucato e stendono i panni.
La Beata Cristina, insieme a San Michele e ai piccoli agglomerati di case vicine, diventano presepi illuminati di notte, così che noi dalla finestra di casa, sul versante opposto, possiamo riconoscerli nel buio e dormire tranquilli.


il sentiero per raggiungere S.Michele

Vista da S.Michele sulle vallati circostanti



Beata Cristina

Di seguito:particolari delle crepe strutturali sulla facciata




Effige della Beata Cristina sulla destra e bucato del prete sulla sinistra