martedì 7 luglio 2015

Ricordi in piazza

Le piazze aquilane mi riportano indietro in un tempo sospeso tra i miei ricordi e tra quello che si legge sui libri di scuola, una dimensione tanto viva quanto lontana che stringe corde profonde e lascia un po' l'amaro in bocca.
Molte cose qui sono rimaste immutate, il senso del tempo che è passato è dato dalle persone che si danno il cambio in una corsa frenetica che è la vita, figli di figli diventati ormai nonni, qualche macchina che prima non c'era, cartelli moderni che stridono tra i muri in sasso e piante secolari, piccoli particolari che riempiono luoghi solo un po' consumati.
Tempo addietro avevo partecipato con un breve racconto ad un concorso letterario che aveva per tema la piazza.
Oggi più che mai quel racconto mi torna in mente e ve lo propongo perchè riassume perfettamente quello che provo camminando per questi luoghi aquilani.


La Piazza
di Ilaria Vitali
“Dove vai?”
“in piazza!”
“alle sette si cena, non fare tardi…”
Era il 1982 ma sembra ieri, con i miei dodici anni che spingevano forti nelle gambe per correre fuori, incontrarsi con le amiche e stare ore sedute sulle panchine in pietra a raccontarsi sogni, desideri e il futuro, qualcosa di indefinito e maledettamente lontano.
Io portavo i miei ordinati fogli battuti con la Olivetti regalata dal nonno, frasi che si rincorrevano ingenue e che raccontavano di avventure e romanticherie.
Ognuna di noi aveva il suo ruolo, chi di narratore e chi di personaggio e il mondo ci sembrava ancora così grandioso da non scalfire minimamente quei sogni.
L’appuntamento più atteso era ad agosto, il mese del sole a picco sul giardino che si riempiva di crepe e delle scorribande in bicicletta per i campi ciarlieri di grilli e cicale, ma soprattutto il mese della fiera, la sagra annuale di paese che apriva le porte a quella che allora mi sembrava la trasgressione.
Si poteva uscire la sera, con l’occhio sulle lancette che correvano sempre troppo veloci e si doveva rientrare in tempo per non essere puniti.
L’aria profumava di stelle e zucchero filato, i baracconi occupavano l’intera piazza con musica, colori e gente di ogni età.
A dodici anni non sai ancora nulla della vita, la affronti con il batticuore di un inesperto pioniere nella foresta e ogni sguardo, ogni sorriso, ogni timido saluto, mi avrebbero fatto riempire cento pagine ancora di racconti fantasiosi da leggere con le amiche.
Non lo sapevamo ancora ma quell’innocenza che ci avvolgeva morbida e sfacciata sarebbe durata poco e non sarebbe mai più tornata.
Quello che ci affascinava di un piccolo paese della bassa padana finì per diventare una prigione troppo stretta, così la piazza diventò molto presto un porto da cui partire.
Appuntamento alla seconda panchina, in attesa di chi aveva già patente e macchina e poi via, verso la città, superando le distese di campi coltivati, gli argini sonnacchiosi e i paesi sospesi in un tempo speciale.
Non so dire esattamente quando finì quell’innocenza ma credo che una mattina mi svegliai ignorando completamente la piazza, non sentendo più il bisogno di correre fuori per ritrovare quella panchina e tutto il carosello che la circondava.
Non esistevano centri commerciali, le rezdore marciavano esperte su biciclette cariche di borse della spesa e spesso era impossibile entrare dal bottegaio per comprarsi una bibita da tanto era affollato.
Il profumo del pane appena sfornato avvolgeva la piazza di mattina presto, quando già era un brulicare di movimento.
Il cuore del paese del resto stava tutto lì: la farmacia, il bottegaio, il paltino, l’ambulatorio del medico, la scuola elementare, la banca, l’ufficio postale, il bar.
Oltre la piazza un dedalo di viuzze che attraversavano come nastri di asfalto la campagna, strade piccole, con curve improvvise e dossi, strade che si perdevano nella nebbia di certe sere autunnali quando si guardava fuori dalla finestra e non si vedeva il cancello.
I mesi trascorrevano imperturbabili ma la velocità era quella di chi, il tempo, lo accompagnava per mano, vivendolo intensamente senza sprecarne un solo minuto.
E quel grande palcoscenico che era la piazza restava a guardare con i suoi platani gloriosi dai quali lampioni rassicuranti facevano pensare che in fondo, se si era lì, tutto andava bene.
Quando ci fu l’alluvione la piazza divenne ricovero di mucche, contadini, volontari che distribuivano tè caldo e biscotti per chi aveva perso tutto o quasi, gli stessi volontari che l’anno successivo si adoperarono per preparare, in quella stessa piazza, un ricovero per la notte dopo il forte terremoto che fece tremare muri e cuori in pochi interminabili secondi.
E’ tanto che manco, so di per certo che i platani sono ancora lì, a bisbigliare nella notte tra di loro e che forse avranno cambiato le panchine, quegli enormi savoiardi bianchi che allora nessuno, bei tempi, si azzardava a imbrattare, ma se chiudo gli occhi torno a quei giorni per scoprire che nulla è cambiato.
Il nonno passerebbe in bicicletta salutandomi ancora con le sue mani grandi da muratore, chiamandomi “briscola” e facendo finta di essere passato per caso e non per controllare.
“hai le ginocchia tonde di tuo padre” mi diceva, quasi a denunciare una sottile gelosia.
Poi se ne andrebbe, proseguendo la pedalata su una bicicletta che sotto la sua possente mole sembrava piccolissima.
Lassù, sulla cima, le foglie dei platani si muoverebbero appena con le cicale a frinire instancabili quanto le chiacchiere delle comari davanti al bottegaio.
Passerebbe la moglie del banchiere, ondeggiando sui tacchi e scuotendo appena i ricci freschi di permanente, lasciando una scia di profumo dolce e raffinato che farebbe sgranare gli occhi alle comari, pronte a bisbigliare pettegolezzi irriverenti.
“ghiacciolo?” direbbe una di noi.
Attraverseremmo la strada a piedi, lasciando la bicicletta appoggiata alla panchina, ché tanto nessuno pensa a rubartela, e entreremmo timide e sospettose nel bar.
Nuvole di fumo, zaffate di vino e risate sgangherate. Gianni Togni urlerebbe dal juke box e noi vorremmo essere già grandi ma ci limiteremmo ad aprire il pozzetto della Tanara, respirando l’odore di ghiaccio e cartone per cercare il ghiacciolo al limone, quello che non trovi mai e devi affondare la mano per cercarlo.
Poche lire sul bancone troppo alto che puzza di sigaro e caffè, il sorriso del barista che ci invidia quell’innocenza garbata e poi di nuovo sulle panchine, con il ghiacciolo che sgocciola sul braccio e si deve fare presto, così presto che il troppo freddo ci fa male alla testa.
Arriverebbe la bella del paese, quella che tutti noi invidiamo, di qualche anno più grande.
Non ci degnerebbe di uno sguardo, resteremmo mute ad osservare rapite come si muove, come si veste, come si pettina e come ci sembra innegabilmente perfetta.
Avrebbe il broncio, entrerebbe nella cabina gialla della Sip e la vedremmo sorridere alzando gli occhi al cielo.
“Una telefonata d’amore” sospireremmo in coro, sentendoci per un attimo prigioniere dei nostri pochi anni, non sapendo ancora che un giorno vorremo tornare con la memoria a quella panchina, a quella piazza, senza forse sapere più nulla l’una dell’altra, riempiendoci gli occhi di mestizia e nostalgia a pensarci così, bambine spensierate.
Ora di tornare a casa, proprio mentre la piazza si riempie dei grandi, tornati stanchi dal lavoro per vedersi e per vedere le ragazze, che escono a gruppi di tre o quattro, ciarlando argentine, facendo un po’ le smorfiose, lanciando occhiate languide.
“appena divento grande….” e correremmo per non fare tardi perché questa è l’età che il tempo con le amiche non è mai abbastanza.
Partirebbe la sigla di Happy Days, Topolino da sfogliare vicino al piatto e nel piatto verdure fresche in pinzimonio.
Poi la vita accelera, ma questo ancora non avremmo potuto saperlo.
Riapro gli occhi, il sapore degli anni andati rimane annodato nella pancia.
Sono schiava della tecnologia, di oggetti di cui allora si ignorava ancora l’esistenza ma mi piace pensare che un giorno, non troppo lontano, si possa passeggiare e sedersi di nuovo in una piazza dove non esiste segnale, una bolla a-tecnologica.
Si ricomincerebbe a parlare, le mani servirebbero per stringere altre mani o un ghiacciolo che si scioglie troppo velocemente.
Impareremmo ciò che abbiamo dimenticato, riprenderemmo dove ci eravamo lasciate ad ingannare il tempo raccontandoci storie e siccome saremmo vecchie, ne avremmo così tante che il tempo non ci basterebbe, come allora.
I platani dall’alto riprenderebbero a bisbigliarsi segreti quando scende la notte e noi, invidiandoli appena, andremmo a dormire salutandoli.
La vita è circolare, come questa piazza senza tempo, si compie un giro in tondo, ci si allontana dal punto di partenza, per poi ritrovarlo quando la fine è vicina e pensando con sollievo e stupore: si torna a casa, si torna a essere vento tra le fronde dei platani.

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