lunedì 7 settembre 2015

Aggiornamenti da luoghi ameni

Gli isolamenti, quando non sono forzosi, hanno un che di privilegiato con cui ci si bea 24 ore al giorno o giù di lì.
Non pensatemi china sulle sudate carte alla Leopardi né tantomeno dedita a scolarmi bottiglie di whisky nelle ore notturne davanti a pagine di word.
Le mie giornate, che cominciano comunque all’alba solo per il gusto di vederla colorare quella “v” che sta dietro casa tra le due montagne, si aprono con caffè che profumano un’aia ancora assonnata e fette di pane e marmellata casalinga, mentre sotto agli occhi scorrono le notizie del mondo.
Sugli alberi di noci una masnada di scoiattoli comincia la corsa mattutina ed è tutto un fremere di foglie e code, mentre i gusci vuoti rotolano a terra in un rumore secco che mette in allerta un gatto fuori misura.
L’aria è diventata fredda, aspetto che il sole arrivi nel prato per scendere con il mio tappetino e fare un po’ di yoga, accompagnata non sempre ma volentieri dal buffo cane che abita nell’unica casa di fianco.
Arriva, mi fissa sconcertato, si stira sulle zampe (del resto esiste una posizione che si chiama volgarmente cane che guarda in giù), tenta un approccio invadendo il tappetino e la mia faccia, poi se ne va a caccia di uccelli.
La parte più bella è la pseudo meditazione a (semi) fiore di loto con la faccia rivolta a quella “v” da cui il sole comincia a scaldare tutto.
Sì perché lì cominciano i grovigli e anziché liberare la mente come mi propongo ogni volta, succede che da un personaggio del libro io passi al nuovo argomento per l’articolo di Leggo Tenerife, non senza farmi domande per Luca Faccio, non senza programmare una passeggiata nel bosco in cerca di porcini e tassi fino a che mi viene in mente che potrei cuocere le lenticchie intanto che faccio una ricerca qualsiasi, una delle mille mila ricerche in cui mi vado a invischiare.
A proposito: lo sapevate che i tassi, oltre a essere di una bellezza sorprendente, scavano gallerie talmente organizzate da dedicare una stanza alla latrina e una alla camera da letto?
In particolare dedicano molta cura alla loro alcova, costruendo un giaciglio sollevato da terra con ramoscelli intrecciati e rivestito da muschio. Ché gli spifferi qui in inverno sono potenti!
Insomma, “meditazione” terminata scrivo.
A volte ho l’impressione di avere al posto della mente una mongolfiera che devo tenere a bada per evitare che voli via. Sì, mi distraggo, sono capace di farlo anche dentro una stanza isolata, con porta e finestre chiuse e nulla alle pareti, tranne il canovaccio del libro.
Quando è troppo mi alzo e vado nel bosco.
Non esiste nulla di più corroborante e di rilassante.
Ho almeno tre sentieri che faccio abitualmente, a seconda dell’umore.
In particolare ce n’è uno così silenzioso e protetto dove perdo la nozione del tempo.
Ad un certo punto in corrispondenza di una fonte naturale che sgorga dalla montagna, c’è una panchina o meglio un’asse di legno appoggiata su poche pietre.
Mi siedo e aspetto, sentendomi appena un po’ uno dei personaggi di Aspettando Godot, e lì, finalmente, libero la mente.
Ve lo dico: ho messo la parola fine.
No, non che sia finito finito, ma ho messo la parola fine.
Devo lavorare agli eventi, quelli centrali, ma soprattutto devo cominciare a distaccarmi e leggerlo da estranea che lo legge per la prima volta.
Piacerà? E qui, questo salto temporale, si capirà? mentre qui, rischierò di sollevare un polverone? 
Di fianco a me c’è sempre Dietro lo Steccato, lo guardo, gli dico: eh fortunello!
Poi vorrei già lavorare al terzo, perché un terzo esiste già, da anni.
Ma cos’è questa fretta?
Mi alzo dalla panchina, vado verso il rumore del fiume, via via diventa più intenso quasi da sentirlo a portata di mano ma invece è laggiù, sotto ad un salto di non so quanto metri, proprio dove comincia la frana.
Non vedo nemmeno l’acqua, vedo a malapena il letto che la contiene ma ne sento la voce potente.
Un po’ come per il nuovo libro.

E’ lì, ma ancora non lo vedo, non lo tocco.






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