giovedì 1 novembre 2012

Mirissa

Lasciamo l'ultimo pezzo di cordone ombelicale con l'Italia salutando i nostri amici in partenza e trasferendoci più a sud, a Mirissa, sul mare.
Carichiamo i nostri zaini e ci mettiamo in viaggio; niente taxi, niente autobus, uno spartano e divertente tuk tuk ci porterà lentamente, rumorosamente ma con molto divertimento a destinazione.
La strada costeggia per lo più la costa così passiamo da zone deserte e battute dal vento a zone più affollate di alberghetti, case, piccoli negozi e tanta vegetazione.
Vorremmo che questi 42 kilometri si prolungassero per continuare a sentirci come ci sentiamo: due bambini, che ridono ad ogni buca che non si riesce ad evitare e che salutano le facce stranite dei singalesi che al loro passaggio si bloccano curiosi.
Mirissa è un piccolo villaggio di pescatori diviso in due dalla strada principale; da una parte gli abitanti con le scuole i negozi il fiume e la foresta, dall'altra l'agglomerato pazzo dei bungalow sulla spiaggia, pressati a tal punto che non sai dove comincia uno e finisce il successivo.
Il nostro autista sul momento non riesce a trovare il Mirissa Beach Inn, si confonde in un dedalo polveroso di piccoli sentieri dove passiamo a malapena nonostante le nostre esigue dimensioni e ogni indicazione sembra portarci prima a destra, poi a sinistra, in ogni caso non al Mirissa Beach.
Ci ributtiamo sulla trafficata strada principale e lì un baffuto singalese ridendo ci fa segno di varcare un cancello: siamo arrivati.
Non abbiamo prenotazione, abbiamo solo valutato il posto considerando posizione (sulla sabbia), tipologia di servizi offerti (pochi bungalow, cibo a richiesta) e prezzo (se non ricordo male abbiamo speso 20 euro a notte, un'esagerazione ma siamo sulla spiaggia!). Scendiamo, chiediamo, trattiamo e salutiamo il nostro autista scaricando gli zaini.
Il posto è decisamente hippy, pochi bungalow sulla spiaggia, una costruzione più defilata con camere e un porticato affacciato sul mare dove a richiesta cucinano dalla colazione alla cena senza problemi.
Il nostro bungalow è fronte mare, è angusto e umido, non propriamente pulitissimo ma non ci formalizziamo.
Il materasso (se così si può chiamare il giaciglio di gommapiuma dal colore indefinito) deve aver conosciuto tempi migliori ma anche su questo non ci formalizziamo.
Le giornate qui possono trascorrere oziose sulla spiaggia o avventurose al di là della strada. Non ci facciamo mancare nulla, mescolando un po' tutte le situazioni come è nostro costume fare.
Dalla strada di intravvede un'altura su cui sorge un tempio: ci mettiamo subito in cammino e come sempre lo facciamo alle 11, quando il sole comincia ad urlare forte.
Sulla curva della strada principale si inerpicano mille e più gradini di cemento, sovrastati da palme, rampicanti, fiori e soprattutto sole a picco.
La scalinata termina con la sommità dell'altura su cui è stato costruito il tempio di Kandavahari.
Il rumore della strada è lontano e la vista è incredibile, possiamo osservare il gioco delle onde che partono da lontano e vanno a rompersi a pochi metri dalla riva.
Un albero della bodhi di 300 anni è circondato da tempietti bianchi contenenti ciascuno una statuetta di una divinità. L'albero della bodhi è un ficus in genere centenario, per la precisione un ficus religiosa, sotto il quale Siddharta (ovvero Buddha) ricevette l'illuminazione (bodhi) e pertanto è ritenuto l'albero sacro per eccellenza.
Nel silenzio e nel deserto dello spiazzo polveroso appare improvvisamente un monaco vestito di rosso.
Si avvicina sorridendo, sembra quasi una visione.
Con un inglese misto a singalese ci da il benvenuto e ci spiega che il tempio è di recente costruzione poichè quello originario era stato distrutto dalla follia conquistatrice dei portoghesi che ha lasciato intatto solo il ficus. Lo dice con la tipica rassegnazione buddhista: è una cosa che è successa, il presente è ora.
Un rumore secco tra le sterpaglie ci fa accorrere per vedere un grosso varano di più di due metri che si mostra per poi nascondersi lesto tra i rovi.
Salutiamo il monaco e prendiamo il sentiero opposto a quello della risalita, un sentiero in alcuni punti sterrato e in discesa che si addentra nella vegetazione fitta e rumorosa di cinguettii insistenti.
Lo Sri Lanka è famoso per la varietà degli uccelli e non appena ci allontaniamo dal tempio vediamo king fisher, colibrì e strani uccellini neri con le ali di un giallo intensissimo.
Ci osservano, svolazzano di ramo in ramo come se ci seguissero.
Rientriamo al bungalow accaldati come sempre e prima di decidere di fare un bagno ci fermiamo in un piccolo market dove un anziano signore ci sorride senza i denti, mostrandoci un tunnel di gengive rosse come il fuoco. E' seduto su un panchetto di legno bassissimo e di fronte a sè ha una piramide di foglie verdi tonde, ammassate l'una sull'altra. Sta preparando il betel, qui diffusissimo e per noi immediatamente oggetto misterioso da provare assolutamente. I locali, uomini e donne, qui come in India consumano quantità incredibili di betel che ha proprietà eccitanti ma effetti fisici devastanti come la perdita progressiva di tutti i denti. Lo masticano continuamente, tenendolo ad un lato della bocca e sputando più volte saliva rossastra ai lati delle strade che inevitabilmente si macchiano. I grandi consumatori di betel si riconoscono dai denti rossi o dalla parziale o totale assenza di denti ma soprattutto dal rigonfiamento perenne di una guancia che contiene l'impasto.
Noi dobbiamo provarlo. Subito.
Ne acquistiamo una quantità che fa ridere il singalese di gusto facendogli tremolare come gelatina le gengive nude. Il betel si presenta come un pacchettino costituito da una foglia verde spessa e abbastanza dura (la foglia di pepe) che contiene pezzi di quello che scopriremo essere la noce di areca, una crema granulosa bianco rosata che scopriremo essere calce prodotta sminuzzando conchiglie e, chicca delle chicche, pezzi di tabacco per gli uomini e chiodi di garofano per le donne.
Gli chiedo timida come si fa e lui mi fa cenno di sedergli accanto e mi mostra con dolcezza e nel contempo con orgoglio l'antica pratica di masticare foglie di betel.
Si mette tutto il pacchettino in bocca, possibilmente di lato (cosa non facilissima perchè trattasi di bocconcino voluminoso) e si comincia a masticare con calma. Mi fa cenno di respirare adagio e mi fa capire che occorre calma e tranquillità, soprattutto se si è principianti.
Ma il bello viene dopo o meglio quasi subito!
La salivazione aumenta anzi no si decuplica e in pochi secondi mi sento le guance colme di saliva; nessun problema, basta aprire una fessura nella bocca stando ben attenti a non perdere il prezioso carico che riposa in un angolo dell'altra guancia e si sputa letteralmente per terra facendo attenzione a non sputarsi addosso perchè la saliva è rossa e macchia terribilmente.
Il signore ride e io rido con lui ma la mia risata dura pochissimo perchè sento arrivar un treno veloce, un rapido, un espresso che accelera e accelera: è il mio cuore. Sta accelerando talmente in fretta che per un attimo ho la sensazione che oltre ad uscirmi sparato da un orecchio, il signore seduto accanto a me possa sentirne il rumore. Sento inoltre le guance diventare rosse poi paonazze infine penso seriamente stiano andando a fuoco. Ci guardiamo e comincia lo sballo, inizio a ridere e vedendo te ridere, il signore ridere, mi sembra che tutti quelli che stanno passando, anche le persone stipate sull'autobus, ridano tutti, una grande risata ci seppellirà! Decisamente forte, decisamente sballoso, mi porti nel bungalow e ancora oggi non ricordo come ho fatto ad arrivarci. Alla sera, ad effetto ormai passato, controllo i denti: ci sono ancora!
La nostra abilità credo sia quella di trasformare tre giorni in un lungo viaggio a sè stante, incluso in un grande viaggio e per questo ogni volta indimenticabile.
Il mare mi fa paura, è agitato, arrabbiato, mai silenzioso, le onde sono alte due volte me e si rompono a pochi metri dalla riva con un fragore che azzera tutti gli altri rumori intorno.
Mi prendi per mano e mi spieghi come devo fare: non è pericoloso se si conoscono i trucchi ma soprattutto se qualcuno è lì a raccontarteli.
Mi bastano due onde affrontate con il trucco per non voler più tornare a riva. Ritorniamo di nuovo bambini e quando risaliamo sulla spiaggia abbiamo il costume pieno di sabbia e le dita di mani e piedi come prugne secche.
Arriva la sera, accendono i falò, apparecchiano sulla sabbia (cioè mettono i tavolini e le sedie di legno con le candele), attaccano the best of Bob Marley e espongono il pesce: basta scegliere, accomodarsi e aspettare che sia pronto. E nell'attesa bere una birra fredda, guardarsi negli occhi, guardare le stelle, raccontarsi e ridere.
Mirissa rimarrà per noi la luce forte, il mare impetuoso e di carattere, le notti a lume di candela a mangiare pesce e l'alba silenziosa e dolce insieme ai cani randagi che passeggiano con noi sulla spiaggia quando ancora tutto dorme.
Adesso sì che siamo in viaggio.



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