domenica 18 novembre 2012

Equazione Marakollya Beach

Esiste uno strana equazione qui a Marakollya Beach che è data dal curioso rapporto tra la distanza con la città, la strada e la confusione (misurata in kilometri) e il numero di avventure ed emozioni che si incontrano (misurato in felicità): maggiore è la distanza, maggiore è la felicità.
Cominciamo con il dire che Marakollya Beach è più vasta della vastità che deriva dalla sua visione.
La spiaggia non è una distesa piatta da attraversare ad occhi chiusi bensì una susseguirsi di dune a volte garbate a volte impertinenti che richiedono una certa concentrazione.
L'accesso al mare è difficoltoso,  in diversi punti scosceso, in altri pianeggiante ma tormentato da un letto di conchiglie sminuzzate e taglienti che diventano un'insidiosa trappola.
E il mare, questo mare infinito immenso vorace e tumultuoso da qui al Polo Sud, è spesso rabbioso, fa la voce grossa e onde schiumose, è attraversato da correnti nascoste e pericolose.
Ma dove enormi rocce simili a piattaforme imbrigliano le onde facendole diventare una piscina naturale di acqua salata, allora qui il mare è una culla cristallina e dolce in cui passare momenti molto piacevoli.
Ovunque si volga lo sguardo, qui sulla spiaggia, lo sguardo si perde in una ridondanza di luce, di blu e di verde. E' un posto magico, qualcuno ha spento l'interruttore del tempo come lo conosciamo e non ha alcuna intenzione di riaccenderlo.
Le nostre passeggiate si svolgono come d'abitudine all'ora X, l'ora più favorevole, l'ora in cui il sole fonde i granelli di sabbia e spaventa perfino i varani dalla pellaccia dura.
Ma noi non ce ne curiamo, usciamo dalla nostra cabana e decidiamo semplicemente se destra o sinistra.
Oggi sinistra, dove la spiaggia prosegue fino a diventare un miraggio lontano senza altri essere umani o capanne o barche: solo questa autostrada a dossi davanti a noi, il blu alla nostra destra e la foresta alla nostra sinistra.
Alterniamo i nostri passi sulla sabbia bagnata perchè la temperatura è decisamente rovente e ovviamente  la nostra dotazione di esploratori comprende: costume, macchina fotografica, cannone per macchina fotografica e basta. Niente acqua, ciabatte, cappello. E beh, the courageous.
Non abbiamo la minima intenzione di tornare indietro ma ci perdiamo in risate e chiacchiere, fino a quando davanti a noi, da destra a sinistra, una luce blu ci attraversa la strada, cioè la sabbia.
Quella luce è un pavone bellissimo, colorato, perfetto, aggraziato che danza sulla sabbia e sparisce dentro la foresta.
Siamo probabilmente in una versione singalese di Alice nel Paese delle Meraviglie dove il nostro Bianconiglio è un pavone e noi lo inseguiamo.
Ci infiliamo tra due cespugli facendo attenzione a non graffiarci con i rovi e ci troviamo sotto ad un tetto altissimo di palme dove il cielo si intravvede solo qua e là.
La sabbia è ricoperta da muschio spinoso e duro, situazione non proprio felice per i nostri piedi già irritati dal bollore della spiaggia.
Ma in lontananza riappare il nostro pavone, ondeggia la ruota chiusa con un movimento elegante che ci ipnotizza. Cauti e il più possibile silenziosi avanziamo. La striscia di sabbia e rovi termina verso l'interno con un prato più fitto e all'apparenza più morbido, le palme lasciano spazio ad alberi ad alto fusto ma più larghi e fitti. Ci fermiamo un attimo a osservare la quantità impressionante di uccellini che giocano nel cielo quando improvvisamente un rumore alle nostre spalle ci fa girare di scatto.
Un uomo in divisa marrone con un berretto militare in testa ci raggiunge con calma.
Ha i pantaloni arrotolati al polpaccio e indossa un paio di ciabatte infradito, ha le mani nascoste dietro la schiena e un sorriso beffardo sulla faccia consumata dal sole.
Nel suo incedere è elegante e sicuro di sè ma poco rassicurante per noi.
Ha una targhetta di ottone sul taschino della camicia ben stirata e pulita che io non riesco a leggere e ci sorride inclinando leggermente la testa: Come, come with me in my garden.
Accompagna al "my garden" il gesto della mano a indicarci tutta la zona in cui siamo e nella mano tiene con molta naturalezza un machete.
L'uomo ci fa cenno di seguirlo, ci sorpassa e ci ripete: I'm the guardian and this is my garden, come!
Bene, dopo il Bianconiglio, tu chi sei? ci verrebbe da chiedere. Il cappellaio matto??
Lo seguiamo e strategicamente evitiamo di dargli entrambi le spalle.
Procede velocizzando il passo fermandosi di tanto in tanto e facendoci cenno con la mano di seguirlo e i suoi modi sono dolci, dolci con un machete in mano, ma dolci e garbati.
Mi muovo a fatica, i rovi cominciano a diventare sempre più fitti ma finalmente lasciamo la sabbia muschiata e raggiungiamo il tappeto verde. Sotto al tappeto verde non sembra più esserci la sabbia ma uno strato di sale grosso e mano a mano che ci addentriamo in alcuni punti calpestiamo pozze acquitrinose. Il rumore del mare ormai è assente, ci siamo allontanati molto dalla spiaggia e ci siamo addentrati in una foresta dove gli unici rumori sono i cinguettii degli uccellini e di tanto in tanto il grido strozzato tipico dei pavoni. 
"Elepant" ci indica in un punto alla nostra sinistra e vediamo montagne di cacca di elefante, qui, sulla spiaggia o quasi.
La paura occidentale, del resto motivata, direbbe che è una trappola, ci ha fatto allontanare dalla spiaggia e ora dal sentiero battuto, lo spirito singalese dice invece che ci ha fatti allontanare per proteggere i nostri piedi nudi e doloranti e per consentirci di vedere la natura di cui lui stesso va orgoglioso.
Ci indica il cielo e appare un'aquila che mentre tu fotografi con il cannone, io fingo di osservare ma in realtà il mio sguardo è su quel machete che ha cominciato a ballare da una mano all'altra con molta tranquillità.
Vorrebbe che ci addentrassimo ancora di più e in lontananza vedo il buio della foresta aumentare, mentre guardando verso il mare o dove immagino che vi sia il mare, non scorgo altro che una fitta barriera di cespugli priva di varchi per raggiungere la spiaggia.
Il disagio ma soprattutto la stanchezza e il dolore ai piedi ci fanno desistere e con molta cortesia gli diciamo che ci fermiamo. E qui succede l'imprevedibile.
Si avvicina a me, si sfila le sue ciabatte e me le porge. Please, sorridendo.
Sono imbarazzata, ringrazio farfugliando e vergognandomi un poco. Tu rimani a guardarlo e ti leggo lo sguardo. 
Ma cosa ci è successo per commuoverci di fronte ad un gesto di semplice altruismo? cosa è successo al nostro mondo da farci dubitare anche della nostra ombra? quand'è che abbiamo perso la nostra ingenuità e la nostra genuinità?
Capisce o forse no il nostro imbarazzo e capisce anche che non siamo in grado di ritrovare il varco per ritornare sulla spiaggia. Un varano si arrampica lesto sul tronco di una palma vicino a noi e lui se ne meraviglia come se la vedesse con i nostri occhi, occhi che non sono abituati al contatto con tutta questa natura.
Quand'è che abbiamo perso l'incanto nei nostri occhi? quand'è che abbiamo smesso di emozionarci di fronte alle meraviglie della natura?
Ci indica un passaggio che mai avremmo individuato, nascosto tra due cespugli e dopo averlo ringraziato tanto, ci troviamo nella luce abbacinante e rassicurante della spiaggia.
Mi sento una stupida ma lo Sri Lanka è anche questo, farti sentire stupido nella tua falsa sicurezza occidentale, perchè questa avventura benchè la si possa leggere in due modi diversi, ha solo una versione.
Marakollya Beach è l'equazione di un paradiso talmente perduto che a volte può anche fare male.


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