mercoledì 22 gennaio 2014

Sinharaja Forest - l'ultima foresta pluviale

Sinharaja è l’unica e ultima foresta pluviale rimasta in Sri Lanka, deriva il suo nome dal leone singalese, oggi estinto, e letteralmente significa Regno del Leone.
La foresta si estende su una superficie di circa 90 km2 ed è situata nella parte più a sud della zona collinare, appena sotto il distretto di Ratnapura.
Nel 1989 l’Unesco ha dichiarato la zona Patrimonio dell’Umanità e in passato, dopo essere stata di “proprietà” della dinastia reale che regnava sull’isola, divenne possedimento della corona britannica che si adoperò per mantenerla incontaminata.
Nonostante gli sforzi, negli anni 70 si cominciò una barbara riduzione del legname con relativa costruzione di segherie e apertura di strade per favorire il trasporto dei tronchi. Solo diversi anni dopo, a fronte di petizioni e proteste, il governo decise di chiudere qualsiasi tipo di commercio all’interno della foresta e di attivarsi per la sua preservazione.
Ciò che possiamo vedere oggi è quindi una parte di quello che era una volta ma soprattutto anche la fauna al suo interno ha subito delle importanti modifiche.
Benchè regno di molte specie animali, alcuni davvero rari, si narra che una volta il leone singalese vivesse proprio qui, ma di lui, da tempo, non vi è più traccia.
La foresta ha due punti di ingresso: uno a Ovest (120 km circa da Colombo) e uno a Sud (80 km circa da Matara).
Ci studiamo il percorso e attendiamo un tempo stabile, visto che quasi a cadenza giornaliera nella foresta piove (essendo foresta pluviale…) e partire con una condizione meteorologica già avversa significherebbe compromettere l’ingresso ai sentieri perché troppo melmosi.
Il nostro tuktuk non teme avversità, sarà il nostro principale mezzo di spostamento nei prossimi mesi e lo equipaggiamo a dovere: attrezzatura fotografica a portata di mano, navigatore, attacchi esterni per riprese on the road e tendine parapioggia in caso di maltempo, una buona scorta di acqua e all’alba possiamo partire, mentre le strade si stanno lentamente popolando.
Decidiamo di prendere Akuressa Road direttamente da Weligama, memori che il tratto che riguarda Matara è sottosopra per la realizzazione di una nuova tranche di autostrada.
Lasciamo a poco a poco la costa alle spalle, ci addentriamo puntando tutto a nord e tagliando paesini sperduti dove i cartelli in inglese sono praticamente assenti.
Raggiungiamo la provinciale A17 che si inerpica dolcemente senza lasciarci però mai tregua.
Alcuni timidi tornanti, altri un po’ più decisi e il panorama che cambia sotto ai nostri occhi ci fa fermare per un attimo il bolide a lato strada per dare un’occhiata.
Le risaie sono ormai un ricordo, le colline sono disegnate da filari di alberi di tè dove qua e là cappucci rossi o marroni sbucano come coccinelle nella vastità di quel verde: sono le raccoglitrici di foglie e la loro tenacia sotto ad un sole che non perdona è ancora un mistero.
Sotto di noi, dove la strada si fa mangiare dalla vegetazione, ci appare una gigantesca cornucopia di verdi contrastanti e lì per lì non riesco a capacitarmi di come possano esistere tante tonalità diverse di quel colore.
E’ una spirale avvolgente, ipnotica, brulicante di vita che rimanda il pensiero a quando ancora non esistevano né strade né fili elettrici a dare un senso ed un orientamento a tutto questo mare verde.
In alcuni tratti la strada si restringe per entrare in caotici paesi dai negozi colorati tutti in fila: Pitabeddara, Morawaka, Kotapola.
Spesso si è fortunati e vicino alla strada corre un fiume che porta un vento fresco e profumato di natura.
Dopo circa tre ore di viaggio raggiungiamo Deniyaya da cui dovrebbe partire una strada diretta all’ingresso della foresta.
Scopriamo che nonostante un paio di cartelloni sbiaditi di pubblicità alle bellezze naturali dello Sri Lanka, le indicazioni per la Sinharaja Forest sono praticamente inesistenti.
Così cominciamo a chiedere indicazioni.
Una ragazza che parla solo singalese, appena fuori Deniyaya ci fa capire che dobbiamo prendere per Palleyama e in seguito per Mederapitiya, ma che la direzione che stavamo seguendo è sbagliata.
Così pazientemente torniamo nel centro del paese perché ricordavamo, passando,  di aver letto su un cartello arrugginito il nome Palleyama e così è.
In realtà una viuzzola secondaria porta il nome di Palleyama Road il che per noi è sufficiente.
Incrociamo una corriera strombazzante in una strada che sarà larga due metri o poco più, così con abili manovre riusciamo a metterci di lato per farla passare.
Dopo alcune curve proseguiamo per uno sterrato che via via peggiora fino a diventare uno scorticato sentiero di terra rossa, in alcuni punti allagato, tra sterminati campi dove i bufali ci guardano con sfida.
La presenza di due bianchi su un tuk tuk deve sembrare bizzarra anche per loro, soprattutto se a guidare è proprio un suddha, un bianco.
Raggiunta Palleyama cerchiamo nel centro del piccolo villaggio un cartello analogo e cioè nascosto, arrugginito, scolorito, che riporti il nome di Mederapitiya Road e scopriamo che esiste per davvero.
Il sentiero diventa un budello eroso con buche enormi disseminate qua e là.
Per un attimo pensiamo di proseguire a piedi ma incrociando altri tuk tuk ci rincuoriamo e spingiamo il nostro ronzino fino ad un agglomerato di case dove la strada termina in una minuscola e raccolta piazza circolare.
Ci guardiamo intorno e vediamo un gruppo di signori fermi sotto ad una veranda come vecchi cowboys in pensione che masticano tabacco, che in questo caso è betel.
Con le labbra color vermiglio e le bolle di saliva rugginosa che sbucano tra un dente e il posto dove prima c’era un dente, ci fanno segno “lì, davanti a voi”.
Guardiamo meglio, deve esserci sfuggita una strada.
No, non ci era sfuggita, semplicemente non c’era e non c’è.
Lì davanti a voi indica un ponte largo quanto il tuk tuk sospeso su un fiume abbastanza vivace e in posizione rialzata rispetto alla strada, sicché per imboccarlo a piedi occorre fare un gradino e per imboccarlo con il tuk tuk bisogna essere bravi oltre che impavidi.
Motore a manetta, calcoliamo l’imboccatura (sbagliare ora sarebbe abbastanza definitivo) e attraversiamo il ponte tra gli sguardi persi dei bufali, quelli stupiti dei masticatori di betel e quelli decisamente divertiti dei bambini.
Guardano un bianco che guida il tuk tuk e si scompisciano dalle risate.
Un po’ li invidio.
Oltre il ponte, il budello prosegue e in condizioni non migliori ma dopo poco raggiungiamo una salita piuttosto ardua alla cui base sono parcheggiati altri tuk tuk.
Arriva un signore, singalese, scalzo e con il sahari. Non parla inglese, solo poche parole.
Chiediamo se per la foresta si deve salire e se possiamo salire con il nostro mezzo.
Sì. No.
Il mezzo lo lasciate qui.
Guida? inteso come “vi serve una guida?”
NO ma lui ci accompagna.
Forse è solo gentile e ci vuole mostrare dove si fanno i biglietti.
La simpatica salita quindi ce la facciamo a piedi con attrezzatura fotografica, acqua, binocolo, videocamera e via e via.
Il paesaggio è mozzafiato, una radura tra le alte cime degli alberi con una stradina di lato ci accoglie e ci fa sentire un po’ piccoli esploratori.
Camminiamo dieci minuti così, tra saliscendi e sole battente poi vediamo un edificio con gabbiotto, siamo arrivati.
Scopriamo subito che non ci è consentito entrare senza la guida.
Regole governative.
Eh grazie tante, mi obblighi a pagare uno che io non voglio.
L’impossibilità della scelta mi rende un attimo, ma solo un attimo, sul punto di girarmi e andarmene, idem quando si deve contrattare sul prezzo della guida.
Passiamo dalle 1000 rupie a 700 dopo cinque minuti di polemiche, paghiamo 1120 rupie per l'ingresso e finalmente ci addentriamo.
Il sentiero di terra battuta si immerge letteralmente nella foresta che è così fitta da impedire in alcuni punti la visione del cielo, alla nostra sinistra un fiume dall’acqua limpidissima ora si trastulla placido ora scroscia su pendenze che vanno via via aumentando mano a mano che avanziamo.
La nostra guida ci precede, facendoci cenno con la mano quando vede qualcosa di interessante e probabilmente fa il suo lavoro di guida (benchè non parli inglese) ma non fa per noi.
I primi dieci minuti si sofferma su animali che abbiamo nel giardino di casa, scimmie comprese, e abbiamo la tentazione di fare come in Jurassik Park 1, quando per la noia uno dei protagonisti ferma le macchine telecomandate che seguono il normale percorso, scende e comincia a uscire dal circuito.
La tentazione è fortissima, ci sono vie di fuga sia a destra che si arrampicano sul crinale, che a sinistra verso il letto del fiume.
Ma ce ne stiamo buoni perché in lontananza vediamo arrivare uno degli uccelli più belli e incredibili che io abbia visto (e che non avevo ancora visto se non in foto): l’Urocissa Ornata (ovvero la gazza blu singalese, ma proprio blu blu!!).
L’entusiasmo è smorzato subito dal gruppo dietro di noi, una donna e tre uomini più la guida.
Io gentilmente chiedo di non superarci per consentirci di fotografare l’Urocissa e di non farla volare via; la guida mi sorride e “sorry we have to go” (scusate dobbiamo andare) …ma dove? vi scappa il treno? vi scappa a tutti la pipì??? ma è la bestiola quella che scappa.
Bene, cominciamo bene, anzi no, avevamo già cominciato bene.
Chinati, accucciati, sdraiati cerchiamo di individuarla tra i rami fitti mentre gli idioti si fermano per fotografare anche loro (ma non avevate così fretta??).
Non passano venti minuti di camminata che sentiamo un rombo provenire da dietro: sì, una moto, una moto nella foresta pluviale patrimonio dell’Unesco.
Penso a un’autorità, un medico d’urgenza per qualcuno che sta per morire, un orso ammaestrato….no, è semplicemente un ragazzo in moto che quando ci fila per passare suona pure il clacson e saluta divertito le guide.
Ma chi sei? e soprattutto dove vai??
Possiamo anche tornarcene a casa, penso, gli animali si saranno dileguati e rifugiati probabilmente a casa nostra.
Poi invece proseguiamo, pensiamo ad un caso, magari una guida che in scioltezza raggiunge un appostamento.
Intanto però di animali nemmeno l’ombra, eccetto per dei millepiedi lunghi quanto il mio avambraccio (probabilmente privi di udito e quindi non in fuga) e uno scoiattolo gigante.
Ora, una piccola parentesi sullo scoiattolo gigante: è una cosa letteralmente inquietante.
Insomma è come dire un pollo gigante o una cavalletta gigante o un maiale gigante, è….è innaturale!!!!!
Grande come un cane di media taglia, arrampicato a testa in giù e per nulla intimorito, nel suo pelo foltissimo e lucido, ci guardava con quegli occhi per niente tranquillizzanti.
Giuro, per un attimo ho pensato che fosse finto e messo lì per i turisti: hey, guardate, uno scoiattolo gigante proprio lì, alla vostra destra!
E tutti a scattar foto e a raccontare il giorno dopo di quanto è incredibile quella foresta e che forti che sono le guide, hanno individuato ANCHE uno scoiattolo gigante.
Il dubbio mi rimane per almeno una mezz’ora, il tempo di vederne un altro intento a mangiare un frutto su una pianta.
Qualche agamide, altri millepiedi, un varano forse nato da pochi giorni e un sentiero affollato come Bangkok in ora di punta di formiche tonde nere, tutte rigorosamente in fila indiana, anzi singalese.
Serpenti, gatti rugginosi, rane, uccelli, tutti fuggiti.
Eh sì, perché di moto ne sono passate altre e non da sole, a volte in coppia per un totale (in due ore di sentiero) di 5 moto.
Ma io dico: non hai altre strade? non hai altri mezzi di locomozione? ma l’Unesco lo sa??
La delusione comincia a montare come soufflè nel forno e arrivati al punto in cui occorrerebbe guadare il fiume per arrivare ad una piscina naturale, chiediamo di tornare indietro.
Arriva la guida che si crede Indiana Jones e con un sorrisetto tirato ci chiede come mai non vogliamo fare il bagno, l’acqua arriva alle ginocchia ed è molto piacevole.
Forse gli deve essere sfuggito il fatto che siamo carichi come cammelli di attrezzatura fotografica e che se devo entrare in una foresta pluviale per farmi due ore di sentieri solo per fare il bagno me ne stavo in spiaggia a casa mia, gratis.
Rispondo con lo stesso sorrisetto e chiedo: ma…animali?
E qui rivela tutto il suo acume da giovane marmotta: “animali???? eh ma sono troppo disturbati in questo periodo, si ritirano, si nascondono….”
Ma va???
Rientriamo abbastanza velocemente, accompagnati da un cagnolino sbucato chissà dove e lasciandoci un poco indietro la guida che sta già gongolando per essersi fatta due passi ben pagati..
All’uscita il prezzo della guida cambia di nuovo (in eccesso ovviamente, 1500 rupie), paghiamo quello che chiede, fotografiamo il tabellone dei prezzi esposto e non possiamo fare le nostre rimostranze alle antipatiche signore della biglietteria perché se ne sono andate.
Arriva un ragazzotto, probabilmente una guida, e mi dice gentilmente che i prezzi esposti sono del 2002.
Ah davvero? e quelli del 2014 dove sono?
Non li esponiamo.
Ah, certo.
Ripeto: ma l’Unesco lo sa!?
Ormai è l’una passata, il cielo comincia a riempirsi di nuvole proprio sopra la foresta.
Rifacciamo la strada a ritroso e raggiungiamo il tuk tuk, il cagnolino sempre dietro di noi.
Gli lascio una decina di cracker che mangia scodinzolando.
Siamo silenziosi, non abbiamo tante parole.
Il mondo sta bruciando lentamente o velocemente, dipende dai punti di vista, e quello che ancora rimane potrebbe scomparire da un momento all’altro.
Il corpo umano quando si ferisce e un oggetto estraneo penetra al suo interno, inizia un fenomenale processo di espulsione dell’oggetto stesso. A seconda della zona e della dimensione, potrebbero volerci pochi giorni o molti di più per espellere definitivamente il “nemico”.
Ecco, penso che la natura stia facendo questo con l’uomo, con tempi che a noi non sono noti ma che soprattutto con azioni che non siamo più lucidamente in grado di contestualizzare e vedere nella loro globalità.
Clima impazzito? i media attaccano il disco di quanti anni sono passati dall’ultima volta che…
Epidemie che tornano vigorose dopo che sembravano debellate? case farmaceutiche stanno già lavorando per trovare una cura.
Animali e/o uomini con strane anomalie genetiche? è il caso dell’anno, copertine su riviste e foto in esclusiva, si accendono le luci del circo mediatico.
Siamo la scheggia purulenta che poco alla volta verrà eliminata e allontanata da ciò che stiamo contaminando, siamo il frammento di qualcosa che si è rotto per sempre ed è incapace di rigenerarsi, siamo un virus molto contagioso ma altrettanto vulnerabile, è questione di tempo.
Ancora una volta non è la natura ad averci deluso, ma l’uomo.

il bolide e l'impavido autista



alla guida

sosta panorama

all'ingresso di Deniyaya

si parte...

incontri

...e per tutte le altre foto a breve disponibili insieme alle moooolte altre sulla GUIDA!!!





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